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Grecia, un disastro ferroviario terribile e annunciato

Quella che segue potrebbe essere una barzelletta macabra, ma è una storia molto reale e, soprattutto, emblematica di questa Grecia neoliberista e fatiscente della prima metà del XXI secolo. 
Le responsabilità della Troika UE/FMI. Il ruolo delle Ferrovie dello Stato italiane


di Yorgos Mitralias
(Tratto da refrattario.blogspot.com)

Solo poche ore prima del terribile disastro ferroviario del 28 febbraio, il presidente del sindacato dei macchinisti greci Kostas Genidounias ha commentato la visita che il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis avrebbe fatto il 1° marzo, cioè il giorno dopo il disastro, al "Centro per il controllo remoto e la segnalazione della rete ferroviaria greca settentrionale" a Salonicco: "Ho appena letto su un sito web che Mitsotakis sarà domani al Centro per il controllo remoto e la segnalazione della rete ferroviaria greca settentrionale. Qualcuno sa dirci dove si trova il centro di segnalazione e telecontrollo e dove opera nella Grecia settentrionale? A Drama non c'è, dopo Platy fino a Florina linea unica, mentre verso Atene è tutto spento, dopo la tx1 rossa, in funzione Sindos, la linea per Strymonas una giungla. Cosa stiamo vivendo?"

Insomma, inaugurando la sua campagna elettorale, Mitsotakis voleva esibire l'ennesimo risultato del suo governo a Salonicco. Solo che questo risultato non esiste, è del tutto immaginario! E soprattutto che proprio la sua inesistenza ha causato il più grave disastro ferroviario (57 morti) della storia del paese!

Eccoci dunque al cuore di questa nuova tragedia greca, all'inesistenza di quella che è la più elementare garanzia di sicurezza per qualsiasi trasporto ferroviario. Ma per capire il motivo di questa stupefacente mancanza di un sistema di segnalamento, dobbiamo risalire alla privatizzazione delle ferrovie greche imposta dalla famigerata troika UE/FMI quando la Grecia è stata posta sotto amministrazione fiduciaria. Una privatizzazione che - come tutte le privatizzazioni di aziende pubbliche - aveva un solo obiettivo: privatizzare i profitti e socializzare le perdite dell'azienda. Questo ha significato offrire al settore privato, quasi gratuitamente, la gestione della rete ferroviaria, che genera profitti, e lasciare al settore pubblico le infrastrutture, che generano solo perdite!

Se ci fermassimo a questo richiamo, dovremmo concludere che l'unico responsabile del disastro ferroviario è lo stato greco, a cui appartiene l'OSE (Organizzazione delle Ferrovie Greche), che ha il diritto esclusivo di gestire l'infrastruttura, e quindi il sistema di segnalamento della rete ferroviaria. Tuttavia, la realtà è ben diversa. Innanzitutto, l'acquisizione dell'esercizio delle ferrovie greche da parte del settore privato (nella fattispecie, il "Treno Ellenico" delle italiane Ferrovie dello Stato) è costato solo 45 milioni di euro, quando il suo valore reale era di oltre 300 milioni di euro! E come se questo scandalo non bastasse, lo stesso stato greco si è impegnato nel 2022 a sovvenzionare Hellenic Train con 50 milioni di euro all'anno per incoraggiarlo a gestire anche le linee non redditizie, compresa quella che collega Atene a Salonicco, che è più che redditizia! E l'ironia è che i governi greci che si sono succeduti hanno preteso di privatizzare le ferrovie... per non doverle più sovvenzionare!

Il risultato è sconcertante: dopo questa vera e propria svendita delle ferrovie greche, l'OSE è disorganizzata e costretta a operare drastici tagli al suo bilancio, il che significa più licenziamenti e meno assunzioni, meno formazione, meno manutenzione di attrezzature e infrastrutture e meno investimenti. E naturalmente non è un caso che il sistema di segnalamento ferroviario, che funzionava senza problemi fino al 2010, abbia cessato di esistere a partire da quello stesso fatidico 2010, che ha visto la comparsa della famigerata Troika e dei suoi memorandum, e l'inizio dell'amministrazione fiduciaria della Grecia. Tutto questo, unito alle successive sconfitte e frustrazioni del popolo e, soprattutto, al marciume del sistema politico, alla corruzione del personale politico e alla decadenza dello stato, che sono il risultato delle politiche neoliberiste perseguite da tutti i governi di destra (Nuova Democrazia), di sinistra (Syriza) e di centro-sinistra (PASOK) degli ultimi 40 anni, portano dritti a disastri come quello che abbiamo appena vissuto... e agli altri che seguiranno. Inevitabilmente...

Inoltre, abbiamo appena appreso che la guida alla cieca dovuta alla mancanza di un sistema di segnalazione non è prerogativa dei soli macchinisti greci. Infatti, i conducenti della metropolitana e della RER della capitale greca, approfittando del clamore suscitato dal disastro ferroviario, stanno denunciando che l'ultimo tratto della linea che porta all'aeroporto Venizelos di Atene è crudelmente privo di segnaletica (!) e che, in barba alle loro proteste, la società privata che lo gestisce fa finta di niente e lascia che ciò accada. Ovviamente, è un miracolo che non si siano ancora verificati disastri simili a quello del 28 febbraio nella capitale greca...

Dieci giorni fa, l'ultimo rampollo della venerabile dinastia politica dei Karamanlis, il ministro dei Trasporti Kostas Karamanlis, che si è appena dimesso, ha castigato in parlamento un deputato di Syriza per aver osato mettere in dubbio la sicurezza delle ferrovie greche. Karamanlis ha definito "vergognosa" e "ipocrita" la domanda del povero deputato di Syriza, prima di ricordare che il numero di incidenti ferroviari in Grecia è il più basso d'Europa. Il ministro non ha mentito, ma ha dimenticato di dire che la Grecia ha la rete ferroviaria meno sviluppata e densa d'Europa, che si riduce a quasi una linea, quella tra Atene e Salonicco.

In effetti, la maledizione delle ferrovie greche non è né nuova né vecchia. È molto più antica e ha fatto sì che il paesaggio ferroviario greco ricordasse il selvaggio West dei vecchi film americani, almeno fino a una ventina di anni fa. Vecchie locomotive, vecchie stazioni del XIX secolo, elettrificazione appena iniziata e non ancora completata nemmeno sulla linea Atene-Salonicco! Perché tutto questo? Perché all'inerzia e al conservatorismo della burocrazia statale greca si è rapidamente aggiunta l'ostruzione organizzata dalla "lobby dell'asfalto", che ha fatto sì che il trasporto di merci - ma anche di passeggeri - sia sempre stato quasi monopolizzato in Grecia dagli autotrasportatori.

La nostra conclusione sarebbe quindi del tutto pessimistica se non fosse per il raggio di speranza rappresentato dalle massicce manifestazioni di una certa gioventù greca che sono iniziate all'indomani del terribile disastro ferroviario del 28 febbraio e che continuano fino ad oggi. Manifestazioni che tendono a diffondersi e che proclamano a gran voce che "la privatizzazione uccide" e soprattutto "i nostri morti prima dei loro profitti"! Forse, questa volta, la goccia di rabbia popolare farà ribollire la pazienza che dura da troppo tempo...







Ponte Morandi: Quando i dividendi valgono più delle nostre vite

Due anni e mezzo d’indagini: 69 indagati, oltre 200 testimoni, quasi 2 mila pagine di accuse.

E 43 morti.
Persone che hanno perso la vita per permettere al gestore di quel pezzo di autostrada di distribuire dividendi ai suoi azionisti risparmiando sulla manutenzione del ponte.

Quando quel tratto era pubblico si spendevano più di un milione di euro l'anno per la sua manutenzione, con la gestione privata poco più di ventiseimila euro.

E' la legge del profitto, lo scopo di ogni impresa privata, in questo caso con conseguenze drammaticamente criminali.

Ricordiamocelo tutte le volte che viene deciso di privatizzare qualcosa. 
Stanno solo regalando, alla profittabilità per qualcuno, un pezzo del nostro mondo senza nessun vero vantaggio per noi, casomai il più delle volte svantaggi o, come nel caso del ponte Morandi, conseguenze drammatiche.





Ponte Morandi, le accuse: “Ispezioni degli stralli fatte coi binocoli. Autostrade ha speso solo 488.128 euro di manutenzione in 19 anni”

Mettevano in pericolo la sicurezza dei pubblici trasporti, e cagionavano, “non impedendolo, il crollo della pila 9 e del collegato tratto autostradale di circa 240 metri del viadotto Polcevera (…) in conseguenza del quale trovavano la morte 43 persone”. E in 19 anni avevano speso meno di mezzo milione di euro per interventi manutentivi strutturali. È l’accusa, formalizzata negli avvisi di conclusione indagini recapitati nelle scorse ore dalla Guardia di Finanza, che la procura di Genova muove a 69 tra tecnici e dirigenti di Autostrade e della controllata per le manutenzioni Spea, indagati a vario titolo per il crollo del ponte Morandi. I reati contestati, al termine di quasi tre anni d’inchiesta, sono saliti a dieci: disastro colposo, falso materiale, ideologico e in documenti informatici, crollo doloso, attentato alla sicurezza dei trasporti, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, omicidio colposo, lesioni personali colpose e infine – novità delle ultime ore – anche l’omicidio stradale, che potrebbe far schizzare verso l’alto il massimo di pena irrogabile in caso di condanne. Gli indagati – scrivono i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno– omettevano “di adoperarsi affinché sul viadotto fossero eseguite attività di diagnosi del degrado (…) ed installati impianti idonei a prevenire il cedimento dei tiranti, nonché sistemi di monitoraggio idonei a consentire un costante e adeguato controllo del suo comportamento, e in particolare affinché si procedesse sugli stralli della pila 9 a interventi che, se realizzati, avrebbero impedito con certezza il crollo”.

Gli interventi omessi – In particolare, “dopo che era stata casualmente accertata, nel 1991, l’esistenza di gravissimi fenomeni di corrosione e di difetto di iniezione dei cavi degli stralli” delle pile 10 e 11, da allora e fino al giorno del disastro (14 agosto 2018) “in una sola occasione, nell’ottobre 2015, erano state eseguite osservazioni dirette e ravvicinate dello stato di conservazione dei trefoli” sulla pila 9, quella crollata, l’unica non interessata da interventi di manutenzione. E la conseguente relazione, proseguono i pm, “evidenziava chiarissimi segnali d’allarme sulle condizioni degli stralli, accertando che tutti i trefoli risultavano scarsamente tesati e si muovevano con facilità facendo leva con uno scalpello”. Nonostante ciò, la struttura è stata lasciata ammalorare negli anni fino al cedimento: “Tra l’inaugurazione del 1967 e il crollo – e, quindi, per ben 51 anni – non è stato eseguito il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila 9”, scrivono i pm. Il progetto di retrofitting (rafforzamento) presentato nel 2017, infatti, non ha fatto in tempo nemmeno a iniziare. Anzi: proprio in vista di quell’intervento, “il viadotto era stato volontariamente sottratto, grazie all’arbitraria e ingiustificataqualificazione dello stesso come intervento locale (…) non soltanto alla valutazione di sicurezza della sua intera struttura, ma anche alla valutazione limitata agli stralli oggetto dell’intervento, doverosa anche nel caso di intervento locale”.

Le ispezioni inadeguate – C’è spazio anche per una valutazione dell’operato di Spea, la controllata di Autostrade che fino al 2019 si occupava delle ispezioni e delle manutenzioni sulla rete. Società, scrivono i pm, “appartenente al medesimo gruppo imprenditoriale, soggetta alla direzione e al coordinamento di Aspi e, quindi, inevitabilmente condizionata da quel rapporto di dipendenza societaria, economica e contrattuale, tanto da attenuare e ammorbidire sistematicamente i contenuti delle proprie relazioni in modo da renderle gradite alla committente, sottovalutando la rilevanza dei difetti e delle criticità accertate”. I controlli, prosegue l’avviso, erano svolti “con modalità non conformi alla normativa vigente e, comunque, lacunose, inidonee e inadeguate in relazione alle specificità del viadotto Polcevera; in particolare, le ispezioni visive degli stralli venivano sistematicamente eseguite dal basso, mediante binocoli o cannocchiali, anziché essere ravvicinate “a distanza di braccio” e non erano pertanto in grado di fornire alcuna informazione affidabile sulle condizioni dell’opera”. Inoltre, dal 2011, “nessun ispettore era più potuto entrare all’interno dei cassonisottostanti l’impalcato per verificarne le condizioni, non avendo Aspi e Spea provveduto allo svolgimento delle attività di formazione professionale imposte dalla normativa; ciò nonostante, i report trimestrali continuavano a dare atto, contrariamente al vero, che tutte le parti del viadotto venivano regolarmente ispezionate”.

I report “ammorbiditi” – Non solo. “Spea – si legge ancora – svolgeva la sua attività di ispezione sulla base di un Manuale di sorveglianza e di un Catalogo di difetti approvati da Aspi, del tutto inidonei a fornire una rappresentazione completa e veritiera dei difetti esistenti, e costituenti le espressioni operative della filosofia manutentiva praticata da Aspi, che prevedeva che il degrado non fosse prevenuto o affrontato e risolto sul nascere, ma fosse lasciato avanzare e progredire, nella presunzione, del tutto infondata sotto il profilo tecnico-scientifico, di essere sempre in grado di controllarne l’evoluzione nel tempo, in modo da poter intervenire il più tardi possibile”. Per di più, secondo la Procura, “anche rispetto ai discutibili criteri di attribuzione dei voti indicati nel Manuale”, la controllata “sottostimava sistematicamente i difetti che rilevava”, attribuendo alle strutture ispezionate “voti inferiori a quelli previsti, in modo da non costringere Aspi a procedere a interventi manutentivi in tempi brevi, mantenendo inalterata, attraverso disinvolte operazioni di copia-incolla e contro ogni legge fisica, la descrizione e la valutazione di gravità dei difetti anche per molti anni”. Peraltro, si legge, le due società “non disponevano della documentazione tecnica necessaria per una corretta e adeguata conoscenza del manufatto”, perché non si erano mai preoccupate di ottenere il progetto originale di Morandi, “acquisito presso l’Archivio di Stato soltanto in data 12.4.2017”.

Il “rischio crollo” – “Il fatto che il viadotto Polcevera, almeno sino al completamento dell’intervento di retrofitting, presentasse criticità e problemi – prosegue l’avviso – aveva indotto la stessa concessionaria ad inserire per la prima volta, nel Catalogo dei rischi operativi relativo all’anno 2013, un rischio specifico, autonomo ed unico relativo al viadotto, definendolo “rischio di crollo del viadotto Polcevera per ritardati interventi di manutenzione” (definizione poi modificata in “rischio di perdita di stabilità”ndr)”, e “a elevare il massimale assicurativo relativo al viadotto Polcevera, a decorrere dal 2016, da 100 a 300 milioni di euro”. Addirittura, gli “imponenti e costosi interventi di manutenzione” necessari per garantirne la sicurezza avevano spinto Aspi “a prendere in considerazione, nel 2003, anche l’ipotesi della demolizione del manufatto”.

I mancati investimenti – Invece nulla venne fatto, né in un senso né nell’altro: e ciò a causa dei quasi nulli investimenti messi in campo da Aspi dopo la privatizzazione del 1999. “Nei 36 anni e 8 mesi intercorsi tra il 1982 e il crollo – argomenta la Procura – gli interventi eseguiti sull’intero viadotto avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro; di questi, 24.090.476 euro (cioè il 98,01%) erano stati spesi dal concessionario pubblico e solo 488.128 euro (cioè l’1,99%) dal concessionario privato; la spesa media annua del concessionario pubblico era stata di 1.338.359 euro (3.665 € al giorno), quella del concessionario privato di 26.149 euro (71 € al giorno), con un decremento pari al 98,05%. Situazione non giustificabile – è la conclusione lapidaria – con l’insufficienza delle risorse”, dal momento che Aspi “aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo, e che, tra il 2006 e il 2017, l’ammontare degli utili conseguiti da Aspi ha variato tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni di euro circa, utili distribuiti agli azionisti in una percentuale media attorno all’80%”.

Articolo originale su Il Fatto Quotidiano




Milano, 23.4.21

Stazione di Bologna - ore 10.25

Oggi, 40 anni fa, una strage fascista e di Stato uccideva 85 persone nella stazione di Bologna.
85 persone che si stavano recando al mare, in vacanza, che stavano viaggiando. 
E che inoltre hanno dovuto subire 40 anni di depistaggi.
Il seguente articolo che pubblichiamo fa un po' di storia e il punto della situazione ad oggi.




Bologna, i dollari della P2 ai fascisti per la strage

2 Agosto . A quarant’anni dai fatti le conclusioni della nuova inchiesta su mandanti e altri esecutori



Stazione di Bologna, 2 Agosto 1980 

© lapresse

Molte e rilevanti sono state le novità di questi ultimi mesi sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980, la più grave e sanguinosa nella storia della Repubblica: 85 morti e 200 feriti.

Prima, il 9 gennaio scorso, è arrivata, dopo 52 udienze e due anni di dibattimento, la sentenza in primo grado emessa dalla Corte d’assise di Bologna di condanna all’ergastolo per l’ex Nar Gilberto Cavallini, per concorso in strage con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già sentenziati in via definitiva. Poi, il 10 febbraio, l’avviso di conclusione delle indagini da parte della Procura generale di Bologna per la nuova inchiesta apertasi sui possibili mandanti, seguito, il 19 maggio, dalla richiesta di rinvio a giudizio per Paolo Bellini, ex Avanguardia nazionale, quale ulteriore esecutore, per l’ex capitano dei carabiniere Piergiorgio Segatel e l’ex capo del Sisde (il servizio segreto interno) di Padova Quintino Spella, accusati entrambi di aver ostacolato le indagini.

In questo ambito sono stati individuati come mandanti e finanziatori della strage: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Umberto Federico D’Amato (per 20 anni al vertice dell’Ufficio affari riservati) e Mario Tedeschi (ex senatore missino e direttore de Il Borghese), tutti iscritti alla P2, non più perseguibili in quanto ormai defunti.

GIÀ NEL PROCESSO a Gilberto Cavallini erano stati riscontrati alcuni fatti di notevole importanza. Tra questi, i rapporti intercorsi tra le nuove leve del terrorismo nero, segnatamente i Nar, e i vecchi dirigenti di Ordine nuovo (fra loro Carlo Maria Maggi, condannato per la strage di Brescia del 1974) e quelli di Avanguardia nazionale, ma soprattutto il possesso da parte dei Nar di decine di tesserini ufficiali dei carabinieri forniti dal colonnello Giuseppe Montanaro appartenente alla P2, nonché la disponibilità da parte di Cavallini di numeri telefonici in uso all’ufficio Nato presso la sede della Sip di Milano.

Ora, da ciò che è trapelato dalla documentazione raccolta dalla Procura generale di Bologna, si sarebbe arrivati alle prove dell’avvenuta regia da parte della P2 nell’organizzare la strage e gli innumerevoli successivi depistaggi, architettando false piste soprattutto internazionali per proteggere i Nar. In questo ambito sono stati acquisiti i riscontri dei finanziamenti dell’intera operazione, prima e dopo il 2 agosto, elargiti a più riprese a partire dal febbraio 1979.

Milioni di dollari (quasi 15) che, scandagliando gli atti del processo per il crac del Banco Ambrosiano, la Guardia di finanza ha accertato essere provenienti da conti correnti svizzeri di Gelli. Solo da uno di questi, presso la Banca Ubs di Ginevra, rintracciato grazie a un manoscritto sequestrato allo stesso Gelli al momento del suo arresto in Svizzera nel 1982, e significativamente denominato «Bologna», sarebbero usciti 5 milioni di dollari. Uno di questi sarebbe stato addirittura consegnato in contanti dallo stesso Gelli, pochi giorni prima della strage, ai neofascisti.

I SOLDI SONO QUELLI del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, la «cassa» della P2, che sarebbero dunque serviti a finanziare anche i fascisti che eseguirono la strage, un commando più numeroso del solo gruppo di Fioravanti e Mambro, composto da elementi provenienti anche da Terza posizione e Avanguardia nazionale, tra loro Paolo Bellini, sicario della ’ndrangheta, nonché collaboratore di giustizia e reo confesso dell’assassinio, il 12 giugno 1975, del militante di Lotta continua Alceste Campanile. Il volto di Bellini è impresso in un filmato in Super 8 girato da un turista svizzero pochi istanti dopo l’esplosione della bomba. Un filmato in possesso fin dal 1985 dell’ufficio istruzione di Bologna. A riconoscerlo nelle immagini, anche la ex moglie.

La nuova inchiesta e le conclusioni del processo a Cavallini dimostrerebbero che i Nar furono tutt’altro che un gruppo spontaneista, come solitamente descritti, ma letteralmente il braccio armato della P2, interni a quell’intreccio eversivo rappresentato dalla loggia segreta di Gelli, dai vertici dei servizi e di alcuni apparati, con coperture nell’ambito della Nato. A riprova della loro natura, il rinvio a giudizio, per «false dichiarazioni al fine di ostacolare le indagini», anche di Domenico Catracchia, l’amministratore per conto del Sisde delle palazzine di via Gradoli, dove al civico 96 si trovava il covo Br affittato dall’ingegner Borghi, alias Mario Moretti, dove Aldo Moro fu inizialmente tenuto prigioniero.

Si è appurato che tra il settembre e il novembre del 1981, esattamente in quella palazzina, a quel civico, si fosse installata una base segreta dei Nar. Catracchia avrebbe detto il falso negando di aver dato l’appartamento in affitto a un prestanome degli stessi Nar.

INAPPUNTABILE il manifesto preparato per il 40esimo dall’Associazione dei familiari delle vittime: «La strage – recita – è stata organizzata dai vertici della loggia massonica P2, protetta dai vertici dei servizi segreti italiani, eseguita da terroristi fascisti».

Articolo originale: https://ilmanifesto.it/bologna-i-dollari-della-p2-ai-fascisti-per-la-strage/



Milano, 2.8.20

Covid19 - irresponsabili al comando

Il 4 maggio inizia la fatidica "Fase 2" in cui, come minimo, bisognerebbe evitare da parte di tutti di fare drammatici sbagli come nella fase 1.
Molti continuano a sottovalutare la situazione a fronte di esperti di fama mondiale che ci avvisano di un possibile rischio, che ci potrebbe portare alla necessità di 150.000 posti di terapie intensive, se si sbagliasse qualcosa in questo delicato passaggio.

Un esempio di come si può sbagliare in pieno ce lo fornisce Trenord.



Coronavirus, la fase 2 di Trenord prevede di lasciare a piedi i pendolari lombardi: cancellato 20% dei treni 
Andrea Sparaciari

Ripartire tagliando posti, ma anche il 20% del servizio. È la scelta di Trenord, la società di trasporti pendolari controllata da Regione Lombardia, che il 30 aprile in commissione Trasporti al Pirellone ha annunciato i suoi piani per la ripartenza del 4 maggio. Una ripartenza a rischio, un po’ perché il Dpcm del 26 aprile 2020 fissa norme rigide per la separazione sociale a bordo dei mezzi e quindi sul numero massimo di passeggeri trasportabili. Un po’ perché l’azienda ha deciso di cancellare un treno su cinque causa incapacità della flotta di reggere lo sforzo.



Sotto il primo aspetto – la separazione sociale decisa dal Dpcm -, la norma è chiara: taglio del 50% dei posti a sedere in aggiunta al taglio del 70% dei posti in piedi. Tradotto: un vagone della metropolitana passerà da 1.256 passeggeri a 260 (pari al 21% della capienza), mentre un treno TSR a cinque casse (il più diffuso nella variegata flotta Trenord) vedrà diminuire la propria capienza da 1.026 passeggeri a 308 (32%).

Una riduzione brutale che ha già suscitato le preoccupazioni dei pendolari. Alle quali però Trenord aveva risposto con un video datato 29 aprile nel quale spiegava tutti gli accorgimenti adottati: “Se il treno lo permette, si sale, altrimenti bisogna attendere quello dopo”, dice a un certo punto un responsabile dell’azienda ai giornalisti. E per sapere se il convoglio è in grado di ricevere nuovi passeggeri, si dovrà scaricare una nuova app che, per dirla con le parole dall’assessore lombardo ai Trasporti Claudia Terzi il 30 aprile, “permette di monitorare in tempo reale il livello di affollamento dei treni. E che diventerà a breve realtà“. Cioè a oggi ancora l’applicazione non c’è. E proprio mentre magnificava la app che arriverà, l’assessore annunciava il taglio del 20% del servizio.

Un treno di Trenord a Porta Garibaldi, Milano. Agf

Quindi il pendolare il 4 maggio andrà in stazione e dovrà tentare di salire sul suo treno. Se questo risulterà già pieno secondo la ventura applicazione, dovrà attendere il successivo, il quale però forse non arriverà perché soppresso.

Un controsenso, visto che nel piano consegnato ai consiglieri regionali lombardi, la stessa società scrive: “Il trasporto pubblico è critico perché concentrato in alcune fasce orarie” e tra le “possibili azioni” annovera: “Incremento frequenze, ampliamento delle fasce orarie di lavoro e smart working”.



Quindi è la stessa Trenord a indicare l’aumento della frequenza dei convogli come una soluzione al sovraffollamento. Anzi, a rigor di logica, la società avrebbe dovuto rimodulare i propri orari, dato lo stato di necessità, e offrire più corse di quelle previste dal contratto di servizio in determinate fasce orarie, visto che con la soppressione delle Frecce e degli intercity di Fs, la rete è assai più libera e i tanto additati colli di bottiglia agli ingressi delle stazioni non sono più un problema. Certo, esiste un oggettivo problema di risorse – azzerate negli ultimi due mesi con la caduta verticale degli incassi da biglietto –  tuttavia è una condizione comune a tutte le aziende di trasporto italiane e quindi è necessario un intervento a breve dello Stato. Che ancora non s’è visto, ma che è materia di discussione in sede di conferenza Stato-Regioni. Detto ciò, perché scegliere di tagliare al posto di aumentare?

Ufficialmente perché la domanda prevista di viaggiatori è stata stimata attorno al 15% del periodo pre-covid. Una stima molto ottimistica, equivalente a circa 100 mila passeggeri. Un numero che sarà confermato o smentito solo dopo il 4 maggio. Di sicuro però quei (teorici) 100 mila utenti si concentreranno in determinate fasce orarie, considerando che gli utilizzatori del TPL sono 50% sistematici, cioè lavoratori e studenti e 50% occasionali, e che il 65% dei sistematici si affolla in stazione tra le 7  e le 9 del mattino. Il 4 maggio gli studenti non ci saranno, d’accordo, ma molti lavoratori sì. E quelli dovranno andare al lavoro e poi dovranno tornare a casa, in qualche modo.

Ufficiosamente c’è un altro motivo che ha portato alla scelta di sopprimere parte del servizio: Trenord non è in grado di assicurare il 100% delle prestazioni previste dal contratto di servizio perché non ha treni sufficienti. La consegna dei famosi “nuovi treni” – quelli sempre indicati da Terzi come la panacea per i risultati disastrosi della società – infatti, si è scoperto in Commissione che è in ritardo di tre/sei mesi. Il motivo di tale ritardo non è stato specificato dall’assessore, né è stato spiegato come mai con un lockdown di un mese e mezzo, il fornitore sia riuscito ad accumulare un ritardo di mezzo anno. Quei convogli comunque non ci sono e, come scrive Trenord nel suo piano, cià comporterà “difficoltà nel mantenere le composizioni con un numero di posti adeguato e conseguente necessità di mantenere in servizio vecchi materiali”.

La fase attuale poi sarà da gestire con flotta vecchia, bilanciando quantità dell’offerta con misure che riducano al minimo disservizi e soppressioni (mai 100% dell’offerta, disponibilità treni di riserva, attività di manutenzione). E, se ciò appare fosco, ancora più preoccupante appare il futuro, perché scrive Trenord: “Da settembre situazione ancora più critica e necessità di avere nuovi treni da Trenotalia, da 30 a 40 carrozze MD + 5-6 loco E464”



Insomma, da maggio andrà male, ma da settembre sarà peggio. Unica magra consolazione per i pendolari il fatto che causa Covid 19 è sconsigliato l’uso dei condizionatori, quelli che negli anni scorsi a causa della mancata manutenzione e dell’età dei treni, si rompevano, determinando lo stop dei convogli.

Insomma, un piano con molte incognite, quello preparato da Regione Lombardia, che allarma i pendolari. Per esempio il Comitato Pendolari Cremaschi che in una nota esprime forte preoccupazione “per quello che potrebbe accadere dal 4 maggio sulla linea ferroviaria Cremona-Crema-Treviglio-Milano”. Nella missiva si legge: “Trenord ha pubblicato gli orari per questa settimana lavorativa e il numero delle corse è lo stesso di adesso. Riteniamo questo esiguo numero di corse assolutamente inaccettabile e in contrasto con l’ultima ordinanza regionale che ordina ripristino del servizio come nella fase precedente all’emergenza”. Per tanto chiedono “che sia al più presto aumentato il numero delle corse fino ad arrivare al 100% del servizio ferroviario”. E se i pendolari lanciano l’allarme, la politica certo non tace: “Regione Lombardia si è presentata in commissione Trasporti senza un piano che riguardasse la mobilità in generale, non solo il Tpl, per il quale ha annunciato solo misure scontate”, dice il consigliere M5s Nicola di Marco, “eppure ha avuto due mesi di tempo per prepararsi. E circa i problemi di flotta, il Pirellone sta mettendo le mani avanti, perché la mancata consegna di una decina di treni nuovi,  sugli oltre 300 che circolano quotidianamente, non può certo essere una giustificazione”.


(Articolo tratto da Bussinessinsider)

Milano, 3.5.20


Il decreto sicurezza che ci vorrebbe

I reati sono in calo costante da anni ma il nostro governo basa la sua politica del consenso tutto sulla paura e la fobia dei "crimini", tipo quello di non avere documenti validi, o di essere poveri e pertanto in situazione indigente.

Nel frattempo i crimini vengono commessi ad alto livello incessantemente, e non ci riferiamo solo a 49milioni di euro rubati da un partito di governo e scaglionati in 80 comode rate annuali dall'altro partito di governo, ma ci riferiamo alla mancata cura e attenzione del patrimonio pubblico, cosa che porta inevitabilmente anche a risvolti drammatici.



Strage di Pioltello: "Usura e scarsa manutenzione su 3 km di rotaie "
Nella relazione tecnica degli esperti nominati dalla Procura anche la scoperta di testate allentate 400 metri prima del "punto zero"

Foto Ansa


Le cattive condizioni nelle quali si trovava il giunto nel cosiddetto "punto zero", ma anche altri e notevoli problemi di usura e di scarsa manutenzione su un tratto ferroviaro di circa 3 chilometri: questo è quanto contengono le prime relazioni tecniche depositate dagli esperti nominati dalla Procura di Milano per accertare le cause del disastro di Pioltello dove lo scorso 25 gennaio un pezzo di rotaia di 23 centimetri si staccò, facendo deragliare il treno 10452. Morirono 3 persone, i feriti furono una cinquantina.

Nei mesi scorsi nelle relazioni degli esperti sui cosiddetti "accertamenti irripetibili", alla presenza dei legali di indagati e persone offese, erano già venuti a galla alcuni dettagli sul cattivo stato del giunto collocato nel "punto zero", quello dove si spezzò una parte di rotaia. Ora si scopre di più: gli esperti, secondo quanto mostrato dal Tg3 Lombardia, anche attraverso diverse fotografie avrebbero verificato che già 400 metri prima del punto critico erano presenti delle "testate allentate", simili a quelle della giuntura sopra la quale è avvenuto l'incidente.
Nella rotaia del giunto incriminato, poi, sempre stando ai consulenti dei pm, erano presenti anche una crepa e un "foro ovalizzato". Infine, anche il giunto 'gemello', ossia quello collocato alla stessa altezza sull'altra rotaia, presentava, stando alla consulenza e come era già emerso dalle analisi, un problema di usura, tanto che nella rotaia sarebbe stata individuata una crepa di circa 3 millimetri.

Le cattive condizioni del giunto, sotto il quale era stata anche collocata una zeppa 'tampone', stando alle indagini, sarebbero state segnalate mesi prima dell'incidente, ma l'intervento di sostituzione sarebbe stato programmato in tempi troppo lunghi. Nell'inchiesta con al centro le accuse di disastro ferroviario e omicidio colposo sono indagate 8 persone: due manager e quattro tecnici di Rete ferroviaria italiana e due manager di Trenord, oltre alle due società.

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Milano, 18.12.18

Il ponte e Genova: paradigma di una Italia che non sa più immaginare un futuro

Dopo il primo articolo pubblicato qualche giorno fa sul tremendo disastro di Genova oggi ne pubblichiamo un altro più orientato all'analisi tecnica, tratto dal sempre molto accurato Cityrailways a firma Andrea Spinoza.



IL PONTE E GENOVA: PARADIGMA DI UNA ITALIA CHE NON SA PIÙ IMMAGINARE UN FUTURO


Quanto accaduto a Genova va al di là della immane tragedia (43 le vittime accertate) ma costituirà una pietra miliare nella storia dell’ingegneria, della gestione della sicurezza delle infrastrutture. Ma soprattutto, ce lo auguriamo, della questione urbana italiana. Come in un processo di introspezione psicologica, il dramma dovrebbe provocare in tutti, cittadini, amministratori e tecnici, la consapevolezza che negli ultimi trent’anni abbiamo rinunciato a immaginare, pianificare e progettare un futuro per le nostre città e il nostro Paese.

IL VIADOTTO POLCEVERA

Il viadotto Polcevera era una infrastruttura cruciale per il sistema dei trasporti nazionale e urbano. è localizzato tra la A10 Genova – Savona e la A7 Genova – Serravalle. Si tratta dell’unico viadotto strallato della rete gestita da Autostrade per l’Italia.
Fu progettato e realizzato sotto la supervisione dell’ing. Riccardo Morandi. I cantieri aprirono nel 1964 e il viadotto fu aperto al traffico nel 1967. Misura 1.102 metri di lunghezza e ha una altezza media dal piano di campagna della Valpolcevera di 56 metri. L’area è quella parte della città genovese che si è condensata lungo la direttrice principale per l’entroterra: altamente urbanizzata vede edifici residenziali di altezza compresa tra 5 e 7 piani, stabilimenti industriali, i due piazzali ferroviari che salgono da Sampierdarena a Rivarolo oltre a diverse strade urbane e di quartiere.
L’impalcato del viadotto, si sviluppava in 11 campate di lunghezza variabile tra 65 e 208 metri. L’impalcato, largo 18 metri, è composto da due corsie per senso di marcia.
Le tre campate principali sono quelle che superano il fascio ferroviario e l’alveo del torrente Polcevera. Sono state realizzate con il “sistema bilanciato”, nel quale l’impalcato è sostenuto da tiranti di cemento armato precompresso – gli stralli – che partono dalla sommità di due antenne a forma di “A” – pile a cavalletto – alte fino a 92 metri dal piano di campagna. La parte restante del viadotto è stata realizzato con il sistema classico delle pile d’appoggio equidistanziate.
Le pile 9, 10 e 11 – quelle a cavalletto con gli stralli – costituiscono il cosiddetto sistema bilanciato. Queste pile erano costituite da quattro elementi fondamentali: antenna, cavalletto, impalcato e stralli. In questo sistema l’impalcato da elemento portato diventa elemento portante pertanto ha una sezione nettamente più ampia dell’impalcato semplicemente portato (da qui l’errore di molti di aver notato un assottigliamento sospetto al centro delle 3 campate).
Abbiamo detto che parliamo delle pile 9, 10 e 11.
Il 3 aprile 2018 Autostrade per l’Italia ha pubblicato il bando di gara 2018/S 083-188611, avente come oggetto “Interventi di retrofitting strutturale del Viadotto Polcevera al km 000+551 dell’Autostrada A10 Genova-Savona”. L’importo in appalto era di 20.159.344,69 euro, IVA esclusa, di cui 14.758.183,69 per lavori parte a corpo e parte a misura e 5.401.160,57 per oneri di sicurezza non soggetti a ribasso. La procedura di gara è stata assegnata l’11 luglio scorso e si prevedeva l’apertura dei cantieri – tutti sotto esercizio stradale al più con temporanee limitazioni della carreggiata – entro il prossimo mese di ottobre.
Il progetto di retrofitting è un progetto che consiste nell’aggiungere nuove tecnologie o funzionalità ad un sistema vecchio, prolungandone così la vita utile. I lavori avrebbero dovuto riguardare le pile 9 e 10 (quella coinvolta nel collasso), non interessando la 11 che era già stata adeguata negli anni Novanta. L’intervento avrebbe dovuto consistere nella sostituzione completa degli stralli con nuovi cavi in trefoli di acciaio armonico, dal traversone dell’impalcato alla sommità delle antenne. Per far sì che i nuovi cavi avessero seguito la deformata a catenaria si sarebbero disposte, lungo lo strallo, degli elementi portacavo (cravatte) in acciaio. Di acciaio sarebbero stati anche gli ancoraggi alla struttura in cemento.
I lavori avrebbero dovuto interessare anche il rinnovo delle facciate cementizie esposte alle intemperie (tamponi, antenne e cavalletti).
Premesso che occorrerà attendere l’esito delle indagini giudiziarie e delle perizie, dai pochi filmati disponibili sembrerebbe che il collasso sia stato originario dalla rottura di uno degli stralli: l’antenna infatti collassa con un colpo di frusta come se venisse tirata giù insieme al traversone dell’impalcato.
L’ingegneria è una scienza complessa che coniuga il rigore matematico con la necessità di dotarsi di metodi di controllo di (relativamente) immediata applicazione: il controllo della sicurezza avviene con l’applicazione di coefficienti di moltiplicazione degli effetti in modo da far sì che il normale campo di lavoro delle strutture sia n-volte lontano dal limite di sicurezza. L’età, le condizioni ambientali e l’aumento dei carichi riducono quel coefficiente di sicurezza avvicinando una struttura al cosiddetto limite di fine vita.
Come con gli esseri umani esistono sistemi di controllo continuo per capire se stiano insorgendo complicazioni: nel caso della pila n. 10 del viadotto Polcevera non c’erano sistema di controllo continuo ma periodico. Sono numerose le concause che hanno portato a sottovalutare il rischio che si stava correndo: da quanto sta emergendo non è affatto detto che un crollo non si sarebbe potuto verificare se si fossero aperti i cantieri prima di ottobre, anzi questa resta un’ipotesi molto probabile: si pensi al Kutai Kartanegara (Indonesia), un ponte sospeso crollato durante i lavori di ritesatura dei cavi.
Il viadotto Polcevera ha registrato sin dai primi 10 anni di vita problemi di corrosione degli stralli e di eccessive deformazioni, a causa della perdita di tensione dei cavi di acciaio dentro le strutture di cemento armato precompresso. Per quanto oggi tutti siano andati a caccia di errori progettuali commessi da Morandi e dal suo gruppo di lavoro, questi non potevano conoscere il fenomeno degli effetti differiti del cemento armato precompresso, un fenomeno che si studia solo dalla fine degli anni Ottanta. Sarebbe come, fatte le debite proporzioni, attribuire ad Eiffel il costo della corrosione elettrolitica della sua famosa torre, un fenomeno al tempo poco conosciuto.

GLI EFFETTI DIFFERITI DELLA PRECOMPRESSIONE

Gli effetti differiti dovuti alla viscosità, al ritiro e al rilassamento si sviluppano gradualmente nel tempo. Proprio per questo richiedono l’introduzione della variabile “tempo” per niente scontata nella tradizionale tecnica delle costruzioni, con conseguenze importanti per le leggi caratteristiche dei materiali da costruzione.
Il comportamento reologico indica il procedere degli effetti della viscosità del calcestruzzo e dei cavi di precompressione, che provoca l’aumento graduale nel tempo delle deformazioni sotto l’effetto delle normali sollecitazioni di lavoro.
Il ritiro del calcestruzzo provoca un accorciamento del materiale ovvero, più precisamente, una diminuzione del suo volume, nel corso della sua maturazione essenzialmente a causa dell’essiccamento e della carbonatazione. Nel caso di ritiro impedito, come con la precompressione, si sviluppa gradualmente uno stato tensionale parassitario.
La soluzione di un problema di viscoelasticità porta alla definizione del cosiddetto coefficiente di invecchiamento. Il coefficiente è derivato da una serie di complesse funzioni matematiche ma può anche essere tabulato secondo parametri dipendenti dall’umidità ambientale e spessore dell’elemento strutturale. Studi recenti hanno mostrato che il coefficiente di invecchiamento si stabilizza molto rapidamente e diventa fortemente dipendente dall’età di messa in carico e poco dipendente da tutti gli altri parametri (umidità ambientale, composizione del calcestruzzo, geometria degli elementi strutturali).
L’aver fatto ricorso al ferrocemento, cioè al rivestimento dei tiranti in acciaio con del calcestruzzo riprende tecnica molto usata al tempo per la costruzione dei grattacieli come sistema di protezione degli elementi in acciaio dal fuoco. In questo caso Morandi ritenne che il ferrocemento avrebbe potuto aumentare la vita dei tiranti riducendo gli effetti della corrosione, considerando anche il fatto che ci si trova in ambiente marino.
Ma così facendo si sono anche nascosti alla vista eventuali anomalie – e, al limite, rotture – degli stessi tiranti: per questo sarebbe stato necessario un monitoraggio continuo, oggi reso possibile e, relativamente, economico dalle nuove tecnologie.
Tralasciate tutte le variegate e fantasiose cause supposte a vario titolo in questi giorni (vento, pioggia eccessiva, fulmini, erosione al piede) il collasso della pila 10 del viadotto Polcevera è, con alta probabilità, da attribuirsi alla rottura di uno degli stralli per l’azione nel tempo degli effetti reologici differiti legati alla viscoelasticità. È lecito pensare che se negli anni Novanta si fosse intervenuti anche sulle pile 9 e 10, invece che limitarsi alla sostituzione degli stralli della 11, ferme restando le suddette criticità, probabilmente si sarebbe aumentata la vita del viadotto.

IL NODO GORDIANO: LA QUESTIONE URBANA ITALIANA

Il viadotto Polcevera era punto d’incontro di tre livelli di mobilità. I flussi merci che dalla Pianura Padana e dall’Europa centrale si muovono da/verso il porto, i flussi di merci e persone che dalla Riviera est si muovono verso ovest, i flussi circadiani tra le due parti di Genova. Parliamo di quasi 25 milioni di veicoli l’anno, ovvero 81.500 veicoli teorici medi giornalieri. Per giorno feriale il valore supera i 95.000 veicoli. Di questi circa il 20% sono mezzi pesanti in transito da/verso il porto.
Questi i flussi su Genova:
  • Direzione Serravalle: 32.858 (21% mezzi pesanti)
  • Direzione Savona: 52.973 (18% mezzi pesanti)
  • Direzione Sestri Levante: 48.671 (15% mezzi pesanti)
  • Flussi urbani Centro – Ponente: 118.700 spostamenti
  • Flussi urbani Centro – Voltri: 30.000 spostamenti
Sono numeri importanti che necessitano di una risposta di scala urbana e metropolitana oltre che di infrastrutture adeguate. Eppure, Genova, come altre città d’Italia – poche le eccezioni -, è una città ferma. È una città nella quale il dibattito pubblico quando c’è è fermo alle idee maturate negli anni Ottanta e Novanta e che non è stata capace di metabolizzare i cambiamenti di un mondo sempre più complesso e le sensibilità sociali e ambientali che sono maturate negli ultimi vent’anni.
La stessa Gronda è un progetto maturato negli anni Ottanta e che, seppure andrebbe a scaricare gli assi di penetrazione urbana – come l’asse del Polcevera – non aggiunge nulla al problema dell’accesso al Porto e alla necessità di ripensare completamente gli spostamenti urbani. Perché solo dopo la tragedia del crollo del Polcevera le ferrovie si sono accorte delle potenzialità del corridoio Brignole – Voltri?
Perché la metropolitana di Genova resta ferma all’evoluzione di una galleria tranviaria costruita nel primo Novecento e, nello scenario più ottimistico, sarà allungata verso piazza Martinez e a nord verso Rivarolo? Perché ancora oggi il progetto ideato ai primi del Novecento da Stefano Cattaneo Adorno ci sembra tanto moderno quanto irraggiungibile?
Perché abbiamo smesso di immaginare il futuro per le nostre città e quindi, al più, trasformiamo quello che c’è: ma le città sono come le grandi infrastrutture, vanno controllate, adeguate, manutenute e, nel caso, trasformate. Altrimenti invecchiano e, inevitabilmente, collassano.
Non è un discorso che riguarda solo la città di Genova.
La migliore esperienza tranviaria italiana, in questo momento, è quella di Firenze. Qui la rete tranviaria resta però altra cosa dalla città: finquando non sarà risolto il nodo dell’attraversamento del Centro storico non ci sarà alcun cambio di paradigma rispetto al passato.
A Bergamo il tram si ferma alle porte del Centro e continuerà a farlo: eppure il tasso di motorizzazione della terza città lombarda è tra i più alti d’Europa e il tram suburbano s’è rivelato un successo. Cos’è che ferma la continuazione delle rotaie verso il Centro storico e l’aeroporto di Orio al Serio?
A Bari il trasporto urbano di massa è fermo allo stato progettuale nonostante la città ne abbia estrema necessità per mettere a frutto i traguardi raggiunti negli ultimi dieci anni, come il rilancio del Murattiano.
A Palermo il tram si sta trasformando nella scelta più economica per non sforzarsi a risolvere i problemi realizzati della metropolitana, che tutte le analisi continuano a confermare come necessaria.
Si tratta di 4 casi che dimostrano la totale incapacità di risolvere le situazioni complesse: ogni volta che una amministrazione cede alle sirene dell’alternativa più economica, leggera, innovativa ci sono ottime probabilità che disperderà le poche risorse disponibili non rispondendo ad alcuno dei bisogni manifestati dai cittadini.
L’accostamento tra la tragedia di Genova e l’incapacità di progettare infrastrutture di trasporto pubblico può sembrare azzardata e fuori luogo ma in realtà ne è proprio il frutto più avvelenato. L’idea comunque è quella di risparmiare sui costi di manutenzione: i binari di treni, metropolitane e tram sono più onerosi delle strade e della gomma. Ma c’è un errore di fondo: i costi di usura delle strade e delle infrastrutture come ponti e viadotti sono nascosti e spesso celati ai gestori così da dare l’apparenza di una netta economicità rispetto al ferro.
Un km di sede tranviaria ha una impronta di 7.500 metri quadri e può offrire 150.000 posti giornalieri. Una strada per offrire la stessa capacità dovrebbe avere 2 corsie per senso di marcia con una impronta di 16.000 metri quadri: il mezzo privato, poi, tende a favorire la dispersione degli spostamenti. Alla fine, si ottiene, a parità di posti, un rapporto di dilatazione 1:4.
Eppure, nelle città c’è bisogno di spazio: i torrenti di Genova (FereggianoBisagno e Sturla per limitarsi ai più noti) hanno bisogno di spazio perché nell’attuale scenario meteoclimatico è impensabile lasciarli intubati. Variarne la superficie rimanda soltanto il problema in una prospettiva progettuale novecentesca.
C’è anche bisogno di nuovi spazi per la mobilità dolce (camminare, correre e pedalare), per la socialità, per creare spine verdi in grado di ridurre le acque di ruscellamento, aumentare la capacità termoregolatrice per la città è come un gigantesco corpo vivente.
Ma i binari possono ridurre la pressione sul territorio anche fuori le città: se un km di ferrovia a doppio binario ha una impronta di 15.000 mq, una autostrada ha una impronta di 50.000 mq/km. il suddetto rapporto di dilatazione, fuori città, tra ferrovia e strada diventa di 1:5. Significa impiegare 5 volte lo stesso territorio per trasportare la stessa quantità di persone e merci.
Quindi dalla strada al treno significa compattare lo spazio del trasporto e offrire più sicurezza.
È stata condotta una adeguata analisi costi-benefici prima di dismettere tanti tronchi ferroviari?
Se l’alta velocità è stata progettata anche per le merci, perché dismettere tutto il patrimonio di piccoli e medi scali ferroviari, che sono quelli che veramente possono fare la differenza in un Paese dove 98 tonnellate su 100 viaggiano su strada?
Sono dubbi ai quali più che trovare risposta dovrebbero suggerirci di affrontare il disastro del Polcevera, come anche quello di Bologna, da un’ottica più ampia e trasversale che veda l’Italia come una rete di città. E le città come enormi opportunità il cui rilancio potrebbe rimettere in moto l’intero Paese.







Articolo originale: https://cityrailways.com/genova-ponte/34377/

Milano, 20.8.18