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Grecia, un disastro ferroviario terribile e annunciato

Quella che segue potrebbe essere una barzelletta macabra, ma è una storia molto reale e, soprattutto, emblematica di questa Grecia neoliberista e fatiscente della prima metà del XXI secolo. 
Le responsabilità della Troika UE/FMI. Il ruolo delle Ferrovie dello Stato italiane


di Yorgos Mitralias
(Tratto da refrattario.blogspot.com)

Solo poche ore prima del terribile disastro ferroviario del 28 febbraio, il presidente del sindacato dei macchinisti greci Kostas Genidounias ha commentato la visita che il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis avrebbe fatto il 1° marzo, cioè il giorno dopo il disastro, al "Centro per il controllo remoto e la segnalazione della rete ferroviaria greca settentrionale" a Salonicco: "Ho appena letto su un sito web che Mitsotakis sarà domani al Centro per il controllo remoto e la segnalazione della rete ferroviaria greca settentrionale. Qualcuno sa dirci dove si trova il centro di segnalazione e telecontrollo e dove opera nella Grecia settentrionale? A Drama non c'è, dopo Platy fino a Florina linea unica, mentre verso Atene è tutto spento, dopo la tx1 rossa, in funzione Sindos, la linea per Strymonas una giungla. Cosa stiamo vivendo?"

Insomma, inaugurando la sua campagna elettorale, Mitsotakis voleva esibire l'ennesimo risultato del suo governo a Salonicco. Solo che questo risultato non esiste, è del tutto immaginario! E soprattutto che proprio la sua inesistenza ha causato il più grave disastro ferroviario (57 morti) della storia del paese!

Eccoci dunque al cuore di questa nuova tragedia greca, all'inesistenza di quella che è la più elementare garanzia di sicurezza per qualsiasi trasporto ferroviario. Ma per capire il motivo di questa stupefacente mancanza di un sistema di segnalamento, dobbiamo risalire alla privatizzazione delle ferrovie greche imposta dalla famigerata troika UE/FMI quando la Grecia è stata posta sotto amministrazione fiduciaria. Una privatizzazione che - come tutte le privatizzazioni di aziende pubbliche - aveva un solo obiettivo: privatizzare i profitti e socializzare le perdite dell'azienda. Questo ha significato offrire al settore privato, quasi gratuitamente, la gestione della rete ferroviaria, che genera profitti, e lasciare al settore pubblico le infrastrutture, che generano solo perdite!

Se ci fermassimo a questo richiamo, dovremmo concludere che l'unico responsabile del disastro ferroviario è lo stato greco, a cui appartiene l'OSE (Organizzazione delle Ferrovie Greche), che ha il diritto esclusivo di gestire l'infrastruttura, e quindi il sistema di segnalamento della rete ferroviaria. Tuttavia, la realtà è ben diversa. Innanzitutto, l'acquisizione dell'esercizio delle ferrovie greche da parte del settore privato (nella fattispecie, il "Treno Ellenico" delle italiane Ferrovie dello Stato) è costato solo 45 milioni di euro, quando il suo valore reale era di oltre 300 milioni di euro! E come se questo scandalo non bastasse, lo stesso stato greco si è impegnato nel 2022 a sovvenzionare Hellenic Train con 50 milioni di euro all'anno per incoraggiarlo a gestire anche le linee non redditizie, compresa quella che collega Atene a Salonicco, che è più che redditizia! E l'ironia è che i governi greci che si sono succeduti hanno preteso di privatizzare le ferrovie... per non doverle più sovvenzionare!

Il risultato è sconcertante: dopo questa vera e propria svendita delle ferrovie greche, l'OSE è disorganizzata e costretta a operare drastici tagli al suo bilancio, il che significa più licenziamenti e meno assunzioni, meno formazione, meno manutenzione di attrezzature e infrastrutture e meno investimenti. E naturalmente non è un caso che il sistema di segnalamento ferroviario, che funzionava senza problemi fino al 2010, abbia cessato di esistere a partire da quello stesso fatidico 2010, che ha visto la comparsa della famigerata Troika e dei suoi memorandum, e l'inizio dell'amministrazione fiduciaria della Grecia. Tutto questo, unito alle successive sconfitte e frustrazioni del popolo e, soprattutto, al marciume del sistema politico, alla corruzione del personale politico e alla decadenza dello stato, che sono il risultato delle politiche neoliberiste perseguite da tutti i governi di destra (Nuova Democrazia), di sinistra (Syriza) e di centro-sinistra (PASOK) degli ultimi 40 anni, portano dritti a disastri come quello che abbiamo appena vissuto... e agli altri che seguiranno. Inevitabilmente...

Inoltre, abbiamo appena appreso che la guida alla cieca dovuta alla mancanza di un sistema di segnalazione non è prerogativa dei soli macchinisti greci. Infatti, i conducenti della metropolitana e della RER della capitale greca, approfittando del clamore suscitato dal disastro ferroviario, stanno denunciando che l'ultimo tratto della linea che porta all'aeroporto Venizelos di Atene è crudelmente privo di segnaletica (!) e che, in barba alle loro proteste, la società privata che lo gestisce fa finta di niente e lascia che ciò accada. Ovviamente, è un miracolo che non si siano ancora verificati disastri simili a quello del 28 febbraio nella capitale greca...

Dieci giorni fa, l'ultimo rampollo della venerabile dinastia politica dei Karamanlis, il ministro dei Trasporti Kostas Karamanlis, che si è appena dimesso, ha castigato in parlamento un deputato di Syriza per aver osato mettere in dubbio la sicurezza delle ferrovie greche. Karamanlis ha definito "vergognosa" e "ipocrita" la domanda del povero deputato di Syriza, prima di ricordare che il numero di incidenti ferroviari in Grecia è il più basso d'Europa. Il ministro non ha mentito, ma ha dimenticato di dire che la Grecia ha la rete ferroviaria meno sviluppata e densa d'Europa, che si riduce a quasi una linea, quella tra Atene e Salonicco.

In effetti, la maledizione delle ferrovie greche non è né nuova né vecchia. È molto più antica e ha fatto sì che il paesaggio ferroviario greco ricordasse il selvaggio West dei vecchi film americani, almeno fino a una ventina di anni fa. Vecchie locomotive, vecchie stazioni del XIX secolo, elettrificazione appena iniziata e non ancora completata nemmeno sulla linea Atene-Salonicco! Perché tutto questo? Perché all'inerzia e al conservatorismo della burocrazia statale greca si è rapidamente aggiunta l'ostruzione organizzata dalla "lobby dell'asfalto", che ha fatto sì che il trasporto di merci - ma anche di passeggeri - sia sempre stato quasi monopolizzato in Grecia dagli autotrasportatori.

La nostra conclusione sarebbe quindi del tutto pessimistica se non fosse per il raggio di speranza rappresentato dalle massicce manifestazioni di una certa gioventù greca che sono iniziate all'indomani del terribile disastro ferroviario del 28 febbraio e che continuano fino ad oggi. Manifestazioni che tendono a diffondersi e che proclamano a gran voce che "la privatizzazione uccide" e soprattutto "i nostri morti prima dei loro profitti"! Forse, questa volta, la goccia di rabbia popolare farà ribollire la pazienza che dura da troppo tempo...







Taxi volanti? L'ultima cosa che serve.

Niente, sembra che non ci sia niente da fare, a Milano apparire "Smart" (ma in realtà speculare per il profitto) viene prima di tutto.

Questa dei taxi volanti è l'ultima trovata, ma è anche l'ultima delle cose che sarebbero utili per la mobilità cittadina, proposta incredibilmente elitaria e anti popolare, oltraggiosa per qualunque idea di bene comune e necessità civile.

Se esiste la possibilità di far volare le persone sulla città in modo rapidissimo non viene pensato un servizio di ambulanze per chi è in pericolo di vita e ne ha bisogno, no, viene pensato un servizio di taxi per qualche businessman o businesswoman che non può sopportare i tempi del traffico cittadino per i suoi affari.

Difficile pensare a qualcosa di più vergognosamente inutile per il bene comune di tutti noi e orientato al solo scopo di estrarre profitto anche dallo spazio sopra le nostre case.

Questo non è progresso, progresso sarebbe migliorare la qualità dell'aria della città potenziando il trasporto pubblico, riducendo fortemente il traffico cittadino, migliorando la mobilità di tutti.

Milano non è una città europea, Milano sta diventando uno scherzo di Brighella, sta diventando solo un "Oggetto" da cui estrarre profitto per pochi e non il posto dove abitano e lavorano insieme un paio di milioni di persone.

Milano, 22.1.23


Il seguente articolo è tratto da Milano Today.


A Milano arrivano i taxi volanti: due "vertiporti" in città (e prezzi "economici")
Dal prossimo anno via ai lavori per i vertiporti. Sea: "Costeranno come un Ncc"
Redazione 18 gennaio 2023 08:58




Pronti al decollo. Il prossimo anno, il 2024, a Milano potrebbero esserci i primi "vertiporti", le strutture necessarie per il decollo e l'atterraggio - in verticale - dei taxi volanti, che dovrebbero fare il proprio esordio sotto la Madonnina nel 2026, per le Olimpiadi inverali del 2026.

La conferma è arrivata martedì pomeriggio per bocca dell'amministratore delegato di Sea, Armando Brunini, durante l'audizione comunale delle commissioni bilancio, mobilità e controllo enti partecipati. Lo scopo è "migliorare l'accessibilità agli aeroporti e decongestionare il traffico urbano", mentre "l'obiettivo che ci si pone è essere pronti per le olimpiadi 2026", ha detto il numero uno della società che gestisce gli aeroporti milanesi.
Da dove partiranno i taxi volanti a Milano

Sea lavora al progetto "in termini di ricerca e sviluppo" già da due anni 2 anni. "Ora terminata la fase di questi primi studi dobbiamo iniziare a creare le condizioni in modo che quando i velivoli saranno pronti e certificati possiamo accoglierli e farli volare. Nella timeline, l'obiettivo è arrivare ai primi vertiporti tra il 2023 e il 2024, comprendendo la progettazione, la realizzazione e i test, per essere poi pronti nel 2026", ha detto. Per far questo, secondo Sea, sarebbe opportuno creare la società ad hoc. "Il nostro cda ha deliberato favorevolmente un paio di mesi fa", ha riferito Brunini che ha spiegato: "La società sarebbe composta di tre soci. Noi partiremmo con il controllo della società e i due soci sono uno industriale, Skyports, che porterà contributo in termini specialistici", quindi per quanto riguarda i vertiporti, mentre il "secondo socio sarebbe 2i Aeroporti" e "il motivo è che loro hanno il controllo di altri aeroporti in Italia quindi l'obiettivo è partire su Milano, ma se dovesse partire bene si potrebbe far leva sul mondo 2i per altre aree geografiche italiane con potenziale domanda".

A Milano i due vertiporti dovrebbero sorgere in zona CityLife e in zona Porta Romana, dove nascerà il villaggio olimpico, mentre gli altri due previsti - più grandi - saranno a Linate e Malpensa. "Ci immaginiamo che nel 2030 saranno 2 mila circa i passeggeri al giorno" e gli "investimenti complessivi sono poco più di 30 milioni euro per questi vertiporti", ha spiegato. Rispondendo poi alle domande dei consiglieri comunali, l'ad ha dato alcuni dettagli sul tipo di servizio inizialmente previsto dalla città a Malpensa, e sulla realizzazione delle infrastrutture necessarie. I vertiporti in città "saranno piuttosto piccoli, 3-4 mila metri quadrati", con un mini terminal per il check in", mentre i maxi droni per il trasporto potranno ospitare inizialmente 2 passeggeri.
Quanto costeranno i taxi volanti

"Il prezzo lo farà l'operatore del servizio non Sea, ma da una analisi il prezzo iniziale potrebbe essere circa 120 euro a persona, grosso modo quello che si paga con il Ncc - ha affermato l'ad di Sea -, ma questo è un inizio perché sia per i volumi che l'industria produrrà sia per il fatto che si lavora mezzi per 4, 6 passeggeri, si stima che prezzo possa scendere a 70/80 euro, quindi assolutamente comparabile con un servizio taxi".

Inoltre "si sta lavorando anche a minivan per 6-8 passeggeri e i maxi droni potranno arrivare, a tendere, a coprire anche 200-250 km rispetto ai 50-60 km" dei primi velivoli. Per quanto riguarda in particolare le aree per i primi due vertiporti previsti a Milano, ha riferito ancora Brunini rispondendo ai consiglieri "i contatti sono già avviati, abbiamo immaginato dove posizionarli, per quello di City Life siamo in fase più avanzata, per Porta Romana ci sono ancora delle opzioni che stiamo valutando, ma i proprietari sono società e sono molto molto interessante perché il servizio aggiunge valore al loro assett immobilare". 

"Li svilupperemo prendendo in gestione o in affitto l'area. Anche Enac dovrà dare l'ok al vertiporto. Siamo abbastanza convinti che i posti individuati permetteranno di realizzarli senza troppi problemi", ha concluso. Alla commissione hanno assistito anche gli assessori comunali alla Mobilità, Arianna Censi - che non è intervenuta - e quello al Bilancio Emmanuel Conte. "Ringrazio Sea per averci edotto rispetto alla creazione di questa Newco che si occuperà di questa attività che di fatto è il futuro prossimo del modo in cui ci muoveremo", le parole di Conte.



Salviamo la storia dei trasporti Milanesi, blocchiamo future speculazioni

E' nuovamente possibile votare il Deposito di Desio nell'ambito della campagna "I luoghi del cuore" del FAI - Fondo Ambiente Italiano.
Per votare è sufficiente cliccare sul link seguente, registrarsi e seguire le istruzioni:



E' importante che il deposito di Desio e i suoi importantissimi rotabili storici siano preservati.

Vota e fai votare tutte le persone che conosci! 

Per sventare l'ulteriore spreco italico di capitale storico e le speculazioni sull'area che ne seguiranno.



"Il deposito tranviario ATM di Desio, fu costruito nel 1926 dalla STEL (Società Trazione Elettrica Lombarda) a servizio della tranvia Milano Carate-Giussano che la STEL aveva rilevato due anni prima dalla Lombardy, con l'impegno a elettrificare la linea. Il 1° luglio 1939, le linee gestite dalla STEL passarono in mano alla ATMI (Azienda Tranviaria Municipale Interurbana) in seguito incorporata in ATM, attuale proprietaria dell'area. Il deposito è rimasto attivo fino al 30 settembre 2011, quando la linea tranviaria è stata sostituita da un servizio di autobus. Il complesso rappresenta un importante esempio di archeologia industriale, inoltre all'interno dell'area sono rimessati, purtroppo in precarie condizioni, ben 42 rotabili storici ATM. Il Ministero dei Beni culturali lo scorso anno ha evidenziato infine l'interesse culturale del luogo e dei rotabili, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio."




Milano, 19.5.22

L'auto ecologica non esiste

L’auto ecologica non esiste, l’inquinamento non si misura in Pil
di Guido Viale

Ho frequentato l’analisi costi benefici (Acb) in misura sufficiente a vedere come si fanno «venir fuori» i risultati desiderati. Il risultato dipende dalle «assunzioni» (cioè dai fattori che vengono presi in considerazione e dal metodo per dar loro un prezzo fittizio), ma, soprattutto, dagli elementi su cui si “soprassiede”.

Non che l’Acb sia inutile: spesso serve a «fare ordine» in progetti scritti con i piedi e a volte anche a modificarne qualche aspetto secondario; ma a liquidarli senza remissione, mai. Questo vale anche per l’Acb del Tav Torino-Lione condotta dallo staff di Marco Ponti: il risultato è sì negativo, ma le assunzioni sul volume di traffico che il Tav potrà attrarre sono decisamente sovradimensionate.

D’altronde, con progetti che hanno tempi di realizzazione così lunghi si dovrebbe prendere in considerazione gli sviluppi futuri della crisi ambientale e climatica; e lì non ve n’è traccia. Se ne parla invece nelle considerazioni con cui Marco Ponti e Francesco Ramelli polemizzano con un testo in cui Stefano Caserini definisce illusoria l’idea di un’«auto non inquinante» (Micromega n. 4-2020 e blog 28.7.2020). Non entro nel merito della contesa. Sono un nemico giurato dell’auto privata tanto quanto Marco Ponti è un sostenitore senza se e senza ma del trasporto su gomma.

Noto soltanto che per stabilire quanto sia inquinante un’auto Ponti e Ramelli si limitano a prenderne in considerazione le emissioni allo scarico, mentre è accertato che fino all’85 per cento del particolato prodotto dal traffico è dovuto all’attrito degli pneumatici e dei freni (fonte, tra le altre, la società inglese Emissions Analytics).

Quindi, anche se tutte le auto fossero elettriche poco cambierebbe. Poi, in perfetto stile Acb, Ponti e Ramelli traducono l’inquinamento in denaro per concludere che tra un’auto Euro 0 e una Euro 6 il costo dell’inquinamento (da scarichi) scende da 3,04 a 0,14 centesimi di euro al km, (- 88%). Come parlare ancora di inquinamento?

Ponti insiste quindi su un refrain che gli è caro: il trasporto pubblico è sovvenzionato in perdita; il trasporto privato invece «sovvenziona» lo Stato con le accise sui combustibili, senza le quali nessun bilancio pubblico sopravviverebbe. In realtà l’auto è l’industria più sovvenzionata del mondo (rottamazioni, finanziamenti alla ricerca, contributi a fondo perduto agli investimenti).

Ci sono costi di cui bisogna decidere da che parte stanno. Per esempio, una metropolitana sotterranea (centinaia di milioni di € a chilometro) è un pedaggio che il trasporto pubblico paga per lasciare le strade libere al trasporto privato.

E il restringimento della carreggiata e il rallentamento del traffico che esso comporta non sono forse costi, in termini di consumi, usura e utilizzo dei mezzi pubblici, di perdita di tempo – quanto vale quello dei passeggeri? – imputabili al traffico privato? Che poi completa l’opera con l’intasamento della carreggiata residua: nei giorni di blocco del traffico i mezzi pubblici viaggiano a una velocità commerciale tripla; con la stessa quantità di mezzi, autisti e combustibile (meno stop and go) strade urbane sgombre moltiplicherebbero per tre la capacità del Tpl (Trasporto pubblico urbano) attuale.

Ma sono la costruzione di strade e autostrade (grandi attrattori di traffico incrementale, cioè promozione dell’auto), le loro dimensioni a misura di automobile e lo sprawl (dispersione urbana) che ne consegue a comportare dei costi astronomici mai considerati. Tutto dipende infatti dalle assunzioni.

Poi giunti al nodo dei cambiamenti climatici, Ponti e Ramelli cedono la parola al premio Nobel William Nordhaus, che «stima i costi del cambiamento climatico per un aumento della temperatura di 3°C pari al 2,1% del Pil mondiale». In questo confortato dall’Ipcc (il gruppo di scienziati che si occupano per conto dell’Onu di studiare i cambiamenti climatici) che, in uno scenario Bau (businness as usual), prevedono un aumento della temperatura globale di 3,66°C al 2100 (più del doppio della linea invalicabile indicata altrove dall’Ipcc stesso) e una perdita di PilL del 2,6%: niente.

Si tratta di uno scenario che include inabitabilità di una parte consistente del pianeta; eventi meteo estremi; proliferazione di pandemie e centinaia di milioni di abitanti della Terra costretti a migrare.

Da accogliere in Europa e negli altri paesi temperati con i mezzi utilizzati con i profughi che già oggi tentano la traversata dei confini in Messico, Libia, Turchia o Myanmar. Ma il Pil, tutto sommato, perderebbe poco. Anche se quest’anno, con solo «un po’» di covid, è già diminuito di tre volte tanto. Ecco dove ci porta l’Acb, la traduzione delle assunzioni in prezzi fittizi, moneta sonante.

Tratto da: Articolo originale




Quel che resta del bosco della Moronera, attraversato dalla Pedemontana.
Elettriche o a benzina le auto divorano territorio.



Salviamo il patrimonio storico di Atm!

Il 13 Settembre ATM ha pubblicato un bando di demolizione per QUARANTADUE tram ricoverati fuori uso da anni nel vecchio deposito Atm di Desio.

Il bando scade il 18 Ottobre.

Sono tutti tram dall'elevato valore storico, i più vecchi sono del 1926, i più recenti del 1953.

Chiediamo che venga modificato il bando di demolizione in modo che sia possibile salvare per il futuro Museo dei Trasporti milanesi e lombardi almeno i tram più particolari e storici, tra i quali la "Littorina" 114 del 1935 che in quell'anno raggiunse i 100 km/h lungo viale Monza a Milano, stabilendo il record di velocità italiana per i tram.

Chiediamo che ATM permetta la conservazione della storia e del ricordo di migliaia di persone che hanno viaggiato e lavorato su questi tram.

E' già stata inoltrata comunicazione al FAI e ai Beni Culturali.

Firma e fai firmare la petizione: 
https://www.change.org/p/azienda-trasporti-milano-salviamo-il-tram






Milano, 18.9.18

Il ponte e Genova: paradigma di una Italia che non sa più immaginare un futuro

Dopo il primo articolo pubblicato qualche giorno fa sul tremendo disastro di Genova oggi ne pubblichiamo un altro più orientato all'analisi tecnica, tratto dal sempre molto accurato Cityrailways a firma Andrea Spinoza.



IL PONTE E GENOVA: PARADIGMA DI UNA ITALIA CHE NON SA PIÙ IMMAGINARE UN FUTURO


Quanto accaduto a Genova va al di là della immane tragedia (43 le vittime accertate) ma costituirà una pietra miliare nella storia dell’ingegneria, della gestione della sicurezza delle infrastrutture. Ma soprattutto, ce lo auguriamo, della questione urbana italiana. Come in un processo di introspezione psicologica, il dramma dovrebbe provocare in tutti, cittadini, amministratori e tecnici, la consapevolezza che negli ultimi trent’anni abbiamo rinunciato a immaginare, pianificare e progettare un futuro per le nostre città e il nostro Paese.

IL VIADOTTO POLCEVERA

Il viadotto Polcevera era una infrastruttura cruciale per il sistema dei trasporti nazionale e urbano. è localizzato tra la A10 Genova – Savona e la A7 Genova – Serravalle. Si tratta dell’unico viadotto strallato della rete gestita da Autostrade per l’Italia.
Fu progettato e realizzato sotto la supervisione dell’ing. Riccardo Morandi. I cantieri aprirono nel 1964 e il viadotto fu aperto al traffico nel 1967. Misura 1.102 metri di lunghezza e ha una altezza media dal piano di campagna della Valpolcevera di 56 metri. L’area è quella parte della città genovese che si è condensata lungo la direttrice principale per l’entroterra: altamente urbanizzata vede edifici residenziali di altezza compresa tra 5 e 7 piani, stabilimenti industriali, i due piazzali ferroviari che salgono da Sampierdarena a Rivarolo oltre a diverse strade urbane e di quartiere.
L’impalcato del viadotto, si sviluppava in 11 campate di lunghezza variabile tra 65 e 208 metri. L’impalcato, largo 18 metri, è composto da due corsie per senso di marcia.
Le tre campate principali sono quelle che superano il fascio ferroviario e l’alveo del torrente Polcevera. Sono state realizzate con il “sistema bilanciato”, nel quale l’impalcato è sostenuto da tiranti di cemento armato precompresso – gli stralli – che partono dalla sommità di due antenne a forma di “A” – pile a cavalletto – alte fino a 92 metri dal piano di campagna. La parte restante del viadotto è stata realizzato con il sistema classico delle pile d’appoggio equidistanziate.
Le pile 9, 10 e 11 – quelle a cavalletto con gli stralli – costituiscono il cosiddetto sistema bilanciato. Queste pile erano costituite da quattro elementi fondamentali: antenna, cavalletto, impalcato e stralli. In questo sistema l’impalcato da elemento portato diventa elemento portante pertanto ha una sezione nettamente più ampia dell’impalcato semplicemente portato (da qui l’errore di molti di aver notato un assottigliamento sospetto al centro delle 3 campate).
Abbiamo detto che parliamo delle pile 9, 10 e 11.
Il 3 aprile 2018 Autostrade per l’Italia ha pubblicato il bando di gara 2018/S 083-188611, avente come oggetto “Interventi di retrofitting strutturale del Viadotto Polcevera al km 000+551 dell’Autostrada A10 Genova-Savona”. L’importo in appalto era di 20.159.344,69 euro, IVA esclusa, di cui 14.758.183,69 per lavori parte a corpo e parte a misura e 5.401.160,57 per oneri di sicurezza non soggetti a ribasso. La procedura di gara è stata assegnata l’11 luglio scorso e si prevedeva l’apertura dei cantieri – tutti sotto esercizio stradale al più con temporanee limitazioni della carreggiata – entro il prossimo mese di ottobre.
Il progetto di retrofitting è un progetto che consiste nell’aggiungere nuove tecnologie o funzionalità ad un sistema vecchio, prolungandone così la vita utile. I lavori avrebbero dovuto riguardare le pile 9 e 10 (quella coinvolta nel collasso), non interessando la 11 che era già stata adeguata negli anni Novanta. L’intervento avrebbe dovuto consistere nella sostituzione completa degli stralli con nuovi cavi in trefoli di acciaio armonico, dal traversone dell’impalcato alla sommità delle antenne. Per far sì che i nuovi cavi avessero seguito la deformata a catenaria si sarebbero disposte, lungo lo strallo, degli elementi portacavo (cravatte) in acciaio. Di acciaio sarebbero stati anche gli ancoraggi alla struttura in cemento.
I lavori avrebbero dovuto interessare anche il rinnovo delle facciate cementizie esposte alle intemperie (tamponi, antenne e cavalletti).
Premesso che occorrerà attendere l’esito delle indagini giudiziarie e delle perizie, dai pochi filmati disponibili sembrerebbe che il collasso sia stato originario dalla rottura di uno degli stralli: l’antenna infatti collassa con un colpo di frusta come se venisse tirata giù insieme al traversone dell’impalcato.
L’ingegneria è una scienza complessa che coniuga il rigore matematico con la necessità di dotarsi di metodi di controllo di (relativamente) immediata applicazione: il controllo della sicurezza avviene con l’applicazione di coefficienti di moltiplicazione degli effetti in modo da far sì che il normale campo di lavoro delle strutture sia n-volte lontano dal limite di sicurezza. L’età, le condizioni ambientali e l’aumento dei carichi riducono quel coefficiente di sicurezza avvicinando una struttura al cosiddetto limite di fine vita.
Come con gli esseri umani esistono sistemi di controllo continuo per capire se stiano insorgendo complicazioni: nel caso della pila n. 10 del viadotto Polcevera non c’erano sistema di controllo continuo ma periodico. Sono numerose le concause che hanno portato a sottovalutare il rischio che si stava correndo: da quanto sta emergendo non è affatto detto che un crollo non si sarebbe potuto verificare se si fossero aperti i cantieri prima di ottobre, anzi questa resta un’ipotesi molto probabile: si pensi al Kutai Kartanegara (Indonesia), un ponte sospeso crollato durante i lavori di ritesatura dei cavi.
Il viadotto Polcevera ha registrato sin dai primi 10 anni di vita problemi di corrosione degli stralli e di eccessive deformazioni, a causa della perdita di tensione dei cavi di acciaio dentro le strutture di cemento armato precompresso. Per quanto oggi tutti siano andati a caccia di errori progettuali commessi da Morandi e dal suo gruppo di lavoro, questi non potevano conoscere il fenomeno degli effetti differiti del cemento armato precompresso, un fenomeno che si studia solo dalla fine degli anni Ottanta. Sarebbe come, fatte le debite proporzioni, attribuire ad Eiffel il costo della corrosione elettrolitica della sua famosa torre, un fenomeno al tempo poco conosciuto.

GLI EFFETTI DIFFERITI DELLA PRECOMPRESSIONE

Gli effetti differiti dovuti alla viscosità, al ritiro e al rilassamento si sviluppano gradualmente nel tempo. Proprio per questo richiedono l’introduzione della variabile “tempo” per niente scontata nella tradizionale tecnica delle costruzioni, con conseguenze importanti per le leggi caratteristiche dei materiali da costruzione.
Il comportamento reologico indica il procedere degli effetti della viscosità del calcestruzzo e dei cavi di precompressione, che provoca l’aumento graduale nel tempo delle deformazioni sotto l’effetto delle normali sollecitazioni di lavoro.
Il ritiro del calcestruzzo provoca un accorciamento del materiale ovvero, più precisamente, una diminuzione del suo volume, nel corso della sua maturazione essenzialmente a causa dell’essiccamento e della carbonatazione. Nel caso di ritiro impedito, come con la precompressione, si sviluppa gradualmente uno stato tensionale parassitario.
La soluzione di un problema di viscoelasticità porta alla definizione del cosiddetto coefficiente di invecchiamento. Il coefficiente è derivato da una serie di complesse funzioni matematiche ma può anche essere tabulato secondo parametri dipendenti dall’umidità ambientale e spessore dell’elemento strutturale. Studi recenti hanno mostrato che il coefficiente di invecchiamento si stabilizza molto rapidamente e diventa fortemente dipendente dall’età di messa in carico e poco dipendente da tutti gli altri parametri (umidità ambientale, composizione del calcestruzzo, geometria degli elementi strutturali).
L’aver fatto ricorso al ferrocemento, cioè al rivestimento dei tiranti in acciaio con del calcestruzzo riprende tecnica molto usata al tempo per la costruzione dei grattacieli come sistema di protezione degli elementi in acciaio dal fuoco. In questo caso Morandi ritenne che il ferrocemento avrebbe potuto aumentare la vita dei tiranti riducendo gli effetti della corrosione, considerando anche il fatto che ci si trova in ambiente marino.
Ma così facendo si sono anche nascosti alla vista eventuali anomalie – e, al limite, rotture – degli stessi tiranti: per questo sarebbe stato necessario un monitoraggio continuo, oggi reso possibile e, relativamente, economico dalle nuove tecnologie.
Tralasciate tutte le variegate e fantasiose cause supposte a vario titolo in questi giorni (vento, pioggia eccessiva, fulmini, erosione al piede) il collasso della pila 10 del viadotto Polcevera è, con alta probabilità, da attribuirsi alla rottura di uno degli stralli per l’azione nel tempo degli effetti reologici differiti legati alla viscoelasticità. È lecito pensare che se negli anni Novanta si fosse intervenuti anche sulle pile 9 e 10, invece che limitarsi alla sostituzione degli stralli della 11, ferme restando le suddette criticità, probabilmente si sarebbe aumentata la vita del viadotto.

IL NODO GORDIANO: LA QUESTIONE URBANA ITALIANA

Il viadotto Polcevera era punto d’incontro di tre livelli di mobilità. I flussi merci che dalla Pianura Padana e dall’Europa centrale si muovono da/verso il porto, i flussi di merci e persone che dalla Riviera est si muovono verso ovest, i flussi circadiani tra le due parti di Genova. Parliamo di quasi 25 milioni di veicoli l’anno, ovvero 81.500 veicoli teorici medi giornalieri. Per giorno feriale il valore supera i 95.000 veicoli. Di questi circa il 20% sono mezzi pesanti in transito da/verso il porto.
Questi i flussi su Genova:
  • Direzione Serravalle: 32.858 (21% mezzi pesanti)
  • Direzione Savona: 52.973 (18% mezzi pesanti)
  • Direzione Sestri Levante: 48.671 (15% mezzi pesanti)
  • Flussi urbani Centro – Ponente: 118.700 spostamenti
  • Flussi urbani Centro – Voltri: 30.000 spostamenti
Sono numeri importanti che necessitano di una risposta di scala urbana e metropolitana oltre che di infrastrutture adeguate. Eppure, Genova, come altre città d’Italia – poche le eccezioni -, è una città ferma. È una città nella quale il dibattito pubblico quando c’è è fermo alle idee maturate negli anni Ottanta e Novanta e che non è stata capace di metabolizzare i cambiamenti di un mondo sempre più complesso e le sensibilità sociali e ambientali che sono maturate negli ultimi vent’anni.
La stessa Gronda è un progetto maturato negli anni Ottanta e che, seppure andrebbe a scaricare gli assi di penetrazione urbana – come l’asse del Polcevera – non aggiunge nulla al problema dell’accesso al Porto e alla necessità di ripensare completamente gli spostamenti urbani. Perché solo dopo la tragedia del crollo del Polcevera le ferrovie si sono accorte delle potenzialità del corridoio Brignole – Voltri?
Perché la metropolitana di Genova resta ferma all’evoluzione di una galleria tranviaria costruita nel primo Novecento e, nello scenario più ottimistico, sarà allungata verso piazza Martinez e a nord verso Rivarolo? Perché ancora oggi il progetto ideato ai primi del Novecento da Stefano Cattaneo Adorno ci sembra tanto moderno quanto irraggiungibile?
Perché abbiamo smesso di immaginare il futuro per le nostre città e quindi, al più, trasformiamo quello che c’è: ma le città sono come le grandi infrastrutture, vanno controllate, adeguate, manutenute e, nel caso, trasformate. Altrimenti invecchiano e, inevitabilmente, collassano.
Non è un discorso che riguarda solo la città di Genova.
La migliore esperienza tranviaria italiana, in questo momento, è quella di Firenze. Qui la rete tranviaria resta però altra cosa dalla città: finquando non sarà risolto il nodo dell’attraversamento del Centro storico non ci sarà alcun cambio di paradigma rispetto al passato.
A Bergamo il tram si ferma alle porte del Centro e continuerà a farlo: eppure il tasso di motorizzazione della terza città lombarda è tra i più alti d’Europa e il tram suburbano s’è rivelato un successo. Cos’è che ferma la continuazione delle rotaie verso il Centro storico e l’aeroporto di Orio al Serio?
A Bari il trasporto urbano di massa è fermo allo stato progettuale nonostante la città ne abbia estrema necessità per mettere a frutto i traguardi raggiunti negli ultimi dieci anni, come il rilancio del Murattiano.
A Palermo il tram si sta trasformando nella scelta più economica per non sforzarsi a risolvere i problemi realizzati della metropolitana, che tutte le analisi continuano a confermare come necessaria.
Si tratta di 4 casi che dimostrano la totale incapacità di risolvere le situazioni complesse: ogni volta che una amministrazione cede alle sirene dell’alternativa più economica, leggera, innovativa ci sono ottime probabilità che disperderà le poche risorse disponibili non rispondendo ad alcuno dei bisogni manifestati dai cittadini.
L’accostamento tra la tragedia di Genova e l’incapacità di progettare infrastrutture di trasporto pubblico può sembrare azzardata e fuori luogo ma in realtà ne è proprio il frutto più avvelenato. L’idea comunque è quella di risparmiare sui costi di manutenzione: i binari di treni, metropolitane e tram sono più onerosi delle strade e della gomma. Ma c’è un errore di fondo: i costi di usura delle strade e delle infrastrutture come ponti e viadotti sono nascosti e spesso celati ai gestori così da dare l’apparenza di una netta economicità rispetto al ferro.
Un km di sede tranviaria ha una impronta di 7.500 metri quadri e può offrire 150.000 posti giornalieri. Una strada per offrire la stessa capacità dovrebbe avere 2 corsie per senso di marcia con una impronta di 16.000 metri quadri: il mezzo privato, poi, tende a favorire la dispersione degli spostamenti. Alla fine, si ottiene, a parità di posti, un rapporto di dilatazione 1:4.
Eppure, nelle città c’è bisogno di spazio: i torrenti di Genova (FereggianoBisagno e Sturla per limitarsi ai più noti) hanno bisogno di spazio perché nell’attuale scenario meteoclimatico è impensabile lasciarli intubati. Variarne la superficie rimanda soltanto il problema in una prospettiva progettuale novecentesca.
C’è anche bisogno di nuovi spazi per la mobilità dolce (camminare, correre e pedalare), per la socialità, per creare spine verdi in grado di ridurre le acque di ruscellamento, aumentare la capacità termoregolatrice per la città è come un gigantesco corpo vivente.
Ma i binari possono ridurre la pressione sul territorio anche fuori le città: se un km di ferrovia a doppio binario ha una impronta di 15.000 mq, una autostrada ha una impronta di 50.000 mq/km. il suddetto rapporto di dilatazione, fuori città, tra ferrovia e strada diventa di 1:5. Significa impiegare 5 volte lo stesso territorio per trasportare la stessa quantità di persone e merci.
Quindi dalla strada al treno significa compattare lo spazio del trasporto e offrire più sicurezza.
È stata condotta una adeguata analisi costi-benefici prima di dismettere tanti tronchi ferroviari?
Se l’alta velocità è stata progettata anche per le merci, perché dismettere tutto il patrimonio di piccoli e medi scali ferroviari, che sono quelli che veramente possono fare la differenza in un Paese dove 98 tonnellate su 100 viaggiano su strada?
Sono dubbi ai quali più che trovare risposta dovrebbero suggerirci di affrontare il disastro del Polcevera, come anche quello di Bologna, da un’ottica più ampia e trasversale che veda l’Italia come una rete di città. E le città come enormi opportunità il cui rilancio potrebbe rimettere in moto l’intero Paese.







Articolo originale: https://cityrailways.com/genova-ponte/34377/

Milano, 20.8.18

"Crollo del ponte Morandi: disastro inevitabile o tragedia del capitalismo?"

Crediti LaPresse
L’articolo che pubblichiamo sulla tragedia di Genova presenta una documentazione essenziale e il quadro complessivo di scelte strutturali economiche e politiche che sono alla base di una catastrofe annunciata.

Pone in modo sempre più urgente il tema ineludibile della battaglia contro le privatizzazioni, della necessità del ritorno nelle mani integralmente pubbliche (no SPA e simili), e sotto il controllo dei lavoratori e degli utenti, di settori economici e di strutture fondamentali che non possono in alcun modo essere lasciati alla logica del profitto e dell’interesse privato (Oggi persino La Repubblica è spinta a scrivere che “la tragedia di Genova è un frutto avvelenato delle privatizzazioni”). Pone il tema di un vasto piano pubblico dei trasporti che integri in modo coerente e funzionale ai bisogni del paese, cioè dell’intera popolazione, la parte su gomma e quella su ferrovia; conferma il nostro no alla logica di grandi opere che servono l’interesse di pochi e le speculazioni e la necessità di un vasto progetto e piano di manutenzione delle reti esistenti e di messa in sicurezza di un territorio la cui fragilità è stata messa più volte in evidenza dagli avvenimenti disastrosi che si sono prodotti. In altri termini pone il problema dell’alternativa tra la logica privata del capitalismo e la logica dell’interesse pubblico e del benessere e della sicurezza ambientale di tutte le cittadine e dei cittadini; richiede una svolta profonda che non verrà né dai governanti attuali, né da quelli che li hanno preceduti, entrambi profondamente legati al sistema esistente, ma solo da una nuova mobilitazione di massa sociale delle classi lavoratrici e popolari.

di Giorgio Simoni
(Ringraziamo l'autore, Giorgio Simoni, per l'autorizzazione alla pubblicazione dell' articolo originale)


Il crollo del ponte Morandi a Genova, sull’autostrada A10, con il suo conto, al momento in cui scriviamo, di 39 vittime, 16 feriti, di cui 12 in codice rosso, e 632 sfollati, è una tragedia immane, che ci colpisce amaramente e che segnerà a lungo la storia del nostro Paese.

Al doveroso cordoglio per le vittime, per i loro famigliari, e alla vicinanza con tutti coloro che vedranno la propria vita drammaticamente cambiata da questa sciagura, deve accompagnarsi un inizio di riflessione su come ciò sia potuto accadere e quali ne siano le responsabilità.

Cominciare, seppure a breve distanza dai fatti, a ragionare su alcuni elementi per un futuro giudizio politico su quanto è successo, non è un atto di cinismo. Il cinismo, semmai, è quello dei mercati finanziari, che già all’indomani del disastro hanno segnato il crollo delle quotazioni del titolo Atlantia, controllante di Autostrade per l’Italia. Il riflesso pavloviano (come quello canino, da cui deriva “cinico”) del capitalista: «Qui c’è da pagare un sacco di risarcimenti, meglio spostare i capitali da un’altra parte».

Le concessioni autostradali

Parlando di autostrade italiane, è opportuno fare un salto indietro nel tempo, nel 1997, anno in cui il governo Prodi approvò una nuova convenzione tra ANAS e Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.A.: le concessioni della gestione delle tratte venivano prorogate dal 2018 al 2038. Autostrade era, in quel momento, quotata in borsa ma controllata dall’IRI e quindi in mano pubblica.

Ma l’operazione ne preparava un’altra, di natura ben diversa. Nel 1999 (Governo D’Alema, Ministro dei Trasporti: Tiziano Treu) la Società Autostrade venne privatizzata: al Gruppo IRI, che era l’azionista di riferimento, subentrò con il 30% un nucleo di azionisti privati, riuniti nella Società Schemaventotto; il restante 70% fu quotato in Borsa.

Oggi Autostrade per l’Italia è una controllata di Atlantia S.p.A., di cui la famiglia Benetton è il maggiore investitore, e gestisce 3.000 chilometri di itinerari in Italia, tra cui la tratta da Genova a Savona dell’Autostrada dei Fiori.

Atlantia è una multinazionale a base italiana, con 7.400 dipendenti, che gestisce autostrade anche in Cile, India e Brasile e aeroporti in Italia e Francia e dal 2018, controlla l’operatore spagnolo di pedaggio autostradale Abertis Infraestructuras in collaborazione con ACS SA.

Nel primo semestre del 2018 ha riportato ricavi per 1,9 miliardi, di cui 1,7 miliardi derivanti da pedaggi, e un margine operativo (EBIT) pari a 930 milioni di euro.(1)

Come si può notare, i pedaggi costituiscono la prevalente voce di entrate delle società del gruppo, che sono altamente combattive nel cercare di strappare i maggiori incrementi possibili. Ad esempio, nel 2018, Raccordo Autostradale Valle d’Aosta ha impugnato al TAR il provvedimento del Ministero delle Infrastrutture che ha concesso un aumento delle tariffe del 52,69%, a fronte della richiesta presentata pari all’81,12%; analogamente si è comportata Società Autostrada Tirrenica, a cui è stato riconosciuto un incremento pari all’1,33% a fronte della richiesta presentata pari al 36,51%. I giudizi sono ancora pendenti.

Nel frattempo, non sembra granché cambiato l’atteggiamento dei governo nei confronti del potente concessionario autostradale. Nel luglio del 2017, l’esecutivo retto da Gentiloni (Ministero delle Infrastrutture: Graziano Delrio) ha negoziato con la Commissione europea un accordo ai fini del riconoscimento della proroga di 4 anni della durata della concessione di Autostrade per l’Italia, ovvero dal 31 dicembre 2038 al 31 dicembre 2042.

Il viadotto Polcevera

Il viadotto Polcevera, detto anche “Ponte Morandi”, dal cognome dell’originario progettista, fu completato nel 1967 da Società Italiana per Condotte d’Acqua (2) ed è stato un’opera cruciale dell’infrastruttura viaria ligure. Era infatti l’unico collegamento autostradale esistente tra Genova e il Ponente e oltre, verso la Francia, con 25,5 milioni di veicoli in transito ogni anno, quadruplicatisi negli ultimi 30 anni.

Dopo la tragedia, i mezzi di comunicazione hanno riportato le opinioni di numerosi tecnici, secondo cui le criticità costruttive del manufatto erano da tempo ben note. «Negli anni Novanta furono fatti molti lavori: gli stralli furono affiancati da nuovi cavi di acciaio – ha spiegato Antonio Brencich, docente all’Università di Genova – Indice che già al tempo furono rilevati cedimenti e si cercò di correre ai ripari integrando la struttura originaria per far sì che non insorgessero situazioni di pericolo. E sono tanti i genovesi come me che si ricordano cosa succedeva all’inizio passandoci sopra: era tutto un saliscendi. Morandi aveva sbagliato il calcolo della “deformazione viscosa”. Tradotto: di cosa succede alle strutture in cemento armato nel tempo. Era un ingegnere di grandi intuizioni ma senza grande pratica di calcolo». (3)

Va detto che il citato intervento di manutenzione straordinaria, con i cavi di acciaio aggiuntivi, negli anni Novanta fu attuato solo sulla pila n. 11 del ponte, quella situata più a est. Per le pile n. 10 (quella che è fatalmente crollata il 14 di agosto) e n. 9, solo 25 anni dopo, ovvero il 3 maggio di quest’anno, Autostrade per l’Italia ha pubblicato il bando per i lavori («Interventi di retrofitting strutturale del Viadotto Polcevera al km 000+551 dell’Autostrada A10»), per un importo di circa 20 milioni di euro.(4)

Come si spiega una simile distanza temporale tra i due interventi? Per quale ragione un lavoro così importante per la sicurezza fu a lungo rinviato? Per provare a dare una spiegazione, occorre dire qualcosa su una delle «grandi opere» italiane, la contestatissima «Gronda di Genova»

La «Gronda di Genova»

Il tratto autostradale tra Voltri e Genova, che comprende il manufatto sul progettato da Riccardo Morandi, è ritenuto un nefasto “collo di bottiglia” dai sostenitori dell’opportunità di una crescita illimitata del trasporto su gomma di persone e merci.

Nei decenni scorsi il concessionario autostradale, l’ANAS e le istituzioni locali cominciarono a ragionare sulle possibili soluzioni alternative.

Nel 2002 Autostrade per l’Italia propose uno studio sul nodo di Genova che comprendeva, tra l’altro, il raddoppio dell’autostrada A10, tratto Genova Voltri – Genova Ovest, tramite la costruzione di una nuova autostrada parallela all’esistente con l’attraversamento del torrente Polcevera con un nuovo viadotto in affiancamento al ponte Morandi. Il costo dell’opera sarebbe stato di 1,7 miliardi di euro e la realizzazione avrebbe richiesto poco meno di 8 anni. Il viadotto Polcevera sarebbe stato infine demolito.(5)

Questa fu solo la prima versione della cosiddetta «Gronda di Ponente» (la gronda di Levante invece, passando nell’entroterra del Tigullio, collegherà Chiavari con l’A7).

Nel 2003 ANAS stese un progetto preliminare secondo un diverso itinerario, caratterizzato dall’attraversamento della Val Polcevera tramite un tunnel sotto al letto del fiume, immediatamente a sud di Bolzaneto. Il costo era in questo caso di 2,2 miliardi di euro.

Nel 2005, tuttavia, le istituzioni locali tornarono ad ipotizzare l’attraversamento del Polcevera tramite viadotto, riconsiderando l’itinerario che prevedeva la realizzazione di un nuovo ponte sul torrente  immediatamente a nord (a circa 150 metri di distanza) dell’esistente Viadotto Morandi.

Nel 2008 il Comune di Genova (con sindaca Marta Vincenzi) propose una soluzione che spostava l’attraversamento della Val Polcevera a Bolzaneto, evitando l’abbattimento del Morandi e aprendo una prospettiva di collegamento con la programmata Gronda di Levante. Il costo di questa ipotesi variava dai 2,2 ai 2,5 miliardi di euro.

Nel 2009 venne infine lanciato un dibattito pubblico sulla Gronda di Ponente, ipotizzando cinque diverse soluzioni, tre delle quali non prevedevano la demolizione del Viadotto Polcevera.(6)

Nel contempo, si sviluppò un ampio movimento popolare contro tale opera, concretizzatosi nella forma del Coordinamento dei Comitati della Val Polcevera e del Ponente, mentre in senso favorevole si espressero, sia pure con diversi accenti, le organizzazioni sindacali (CGIL e CISL), le associazioni di categoria (Confindustria e Confesercenti), la Camera di commercio e l’Autorità portuale.(7)

Contrarie all’opera furono anche le associazioni ambientaliste (WWF Liguria, Legambiente e Italia Nostra) e la sezione ligure dell’Istituto nazionale di urbanistica, che espresse «forte perplessità nei confronti di tutte le soluzioni proposte per la Gronda, per ragioni legate sia a un incremento della domanda di mobilità indotto dalla Gronda (come emerge dai dati di Aspi), sia a una sovrastima delle previsioni di domanda di mobilità al 2025» proponendo un “approccio incrementale, prudente e costruttivo” che affrontasse preliminarmente e urgentemente il destino del viadotto Morandi e il potenziamento del tratto genovese dell’A7.

L’opera da 4,5 miliardi di euro

Non è possibile qui ripercorrere tutto il dibattito. Ciò che conta è che alla fine fu partorita la decisione di realizzare questa «grande opera», del valore preventivato di 4,5 miliardi di euro, secondo una versione definita «ottimizzata» della proposta del Comune di Genova.

Il progetto prevedeva (purtroppo occorre esprimersi al passato) il mantenimento del Ponte Morandi, con la sola dismissione della rampa elicoidale di connessione tra il viadotto (traffico proveniente da Savona) e l’autostrada A7, in direzione Milano.

Sì è insomma deciso di realizzare un’opera con 64 chilometri di nuove autostrade, 24 viadotti, 23 gallerie, che richiederà scavi per 11 milioni di metri cubi e dieci anni di lavori. Attualmente sono in corso la progettazione esecutiva e alcuni opere propedeutiche.

In questo faraonico contesto, il malandato viadotto Polcevera del (forse sprovveduto) ingegner Morandi sarebbe dovuto rimanere al suo posto, con solo una dose di manutenzione straordinaria, benché fosse ben chiaro che l’opera avesse costi di mantenimento sproporzionati e che fosse ormai vicina alla fine del ciclo vitale.

L’Amministratore Delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, in un’intervista a Il Secolo XIX dello scorso 29 maggio (8), alla domanda se il ponte Morandi fosse un malato terminale, rispondeva: «E’ un’opera che richiede continua attenzione e manutenzione. Comprendiamo il disagio, ma crediamo che prima di tutto venga la sicurezza. Alla fine di questo intervento di manutenzione straordinaria, Genova avrà un’opera rinnovata». Per poi precisare che «si tratta del sostanziale potenziamento degli stralli della prima campata, in analogia a quanto fatto nella seconda».

Alcune (non) conclusioni

Sarebbe decisamente prematuro voler trarre un giudizio complessivo sulla tragedia di Genova a così breve distanza dai fatti e con ancora ben pochi elementi informativi a disposizione. Non spettano a noi, peraltro, valutazioni di tipo tecnico né di tipo giudiziario.

Abbiamo voluto ripercorrere alcune vicende storiche per chiarire i contesti e le decisioni politiche che costituiscono gli antefatti di questa bruttissima vicenda.

La privatizzazione, a partire dagli anni Ottanta, delle aziende che costituivano il nocciolo dell’intervento pubblico in economia, raccolte nel gruppo IRI, non ha in alcun modo giovato ai lavoratori e alle lavoratrici, né ai cittadini e alle cittadine, ma solo ai gruppi economici che si sono impossessati di asset fondamentali. Parliamo di Alfa Romeo, Finsider/Ilva, Aeroporti di Roma, Italstrade, Telecom Italia e molte altre. E ovviamente di Autostrade.

Nel settore autostradale, il sistema delle concessioni ai privati ha massimizzato la gestione delle stesse secondo logiche di profitto, riducendo gli interventi manutentivi, aumentando le tariffe all’utenza, producendo faraonici piani d’investimento costantemente disattesi e buoni soltanto ottenere infinite proroghe del termine degli affidamenti.

Le politiche di austerità hanno trasferito enormi quantità della spesa pubblica da finalità sociali e collettive a incentivi diretti e sgravi fiscali per le imprese, nonché al rimborso del debito, e hanno progressivamente svuotato le casse degli enti locali, deputati alla manutenzione di altre parti della rete stradale: ricordiamo il crollo del cavalcavia di una strada provinciale che sovrappassa la statale 36 “del Lago di Como e dello Spluga” il 28 ottobre 2016.

Infine, la politica delle «grandi opere», dal TAV Torino-Lione al Terzo Valico dei Giovi, dalla Pedemontana Lombarda al MOSE di Venezia, ha convogliato una quota sempre più consistente di risorse pubbliche verso realizzazioni faraoniche, raramente giustificate, in grado di soddisfare gli interessi della grandi imprese di costruzioni e delle maggiori società di ingegneria.

Nel caso specifico di Genova, la scelta degli enti locali, dei Ministri dei Trasporti via via succedutisi e, ovviamente, nel proprio interesse, di Autostrade per l’Italia, è stata quella di investire studi e risorse economiche nel progetto della Gronda autostradale. È difficile pensare che questo non abbia alcun rapporto con la sottovalutazione criminale della gravità della situazione del viadotto Polcevera e con le decisioni prese sul futuro del medesimo.



(1) http://www.autostrade.it/documents/10279/4408513/Relazione_finanziaria_semestrale_2018_ASPI.pdf

(2) Condotte Spa ha fatto sparire, dopo il disastro, dal proprio sito web il riferimento a tale opera nel proprio portfolio. Tuttavia, se ne trova ancora traccia a questo indirizzo: http://cc.bingj.com/cache.aspx?q=http%3a%2f%2fwww.condotte.com%2fit%2fopere%2fopere.aspx%3fid%3d17&d=4720269646105387&mkt=it-IT&setlang=it-IT&w=1IzYarSc-plih-TS0MycCLb-t6eTU0CW. Si legge che: « Il viadotto Polcevera rappresenta il primo esempio di ponte strallato in calcestruzzo costruito in Europa. Opera di caratteristiche tecniche ancora oggi attuali, fu realizzata in un contesto urbano, fitto di insediamenti preesistenti».

Fino al 1970 Condotte d’Acqua è stata di proprietà dell’Amministrazione Speciale della Santa Sede e di Bastogi.

(3) https://www.corriere.it/cronache/18_agosto_14/ingegnere-che-2016-diceva-il-ponte-morandi-fallimento-dell-ingegneria-deve-essere-sostituito-eafec83c-9fb4-11e8-9437-bcf7bbd7366b.shtml

(4) Gara 200/A10 http://www5.autostrade.it/applica/gare/gareapp.nsf/vwBDESDT/3ADE03ABCBEFAB35C1258282004A763A?opendocument&initPos=3&lang=IT&Lavori

(5) http://www.urbancenter.comune.genova.it/sites/default/files/Gronda_relazione_descrittivadeitracciati.pdf

(6) Comunicato del Coordinamento dei Comitati, 2 marzo 2009: “Noi non siamo ideologicamente contro la Gronda, ma ci battiamo in favore di una mobilità diversa e finalmente sostenibile. (…) Ci rendiamo perfettamente conto che la situazione dei trasporti cittadini non è più accettabile, ma il voler costruire una nuova autostrada in mezzo alle case, devastando un territorio già pesantemente martoriato negli ultimi decenni, anziché risolvere i problemi non farà che aumentarli in maniera esponenziale, con ricadute pesantissime sulle generazioni future”. “…per noi opzione zero significa rifiutare i 5 tracciati proposti perché è fondamentale che si parta da una fotografia della situazione attuale, la si aggiorni con dati e proiezioni derivanti dai progetti già partiti e da quelli definiti o in via di cantierizzazione in ambito urbano, da quelli realizzabili con risorse relativamente modeste”

(7) La CGIL in particolare ritenne l’opera necessaria “… per rispondere puntualmente alle necessità (del territorio genovese), non solo di crescita economica (poiché) (…) rappresenta un positivo contributo sul piano del miglioramento ambientale attraverso il minor impatto del traffico, soprattutto pesante sulla città” https://www.grondadigenova.it/wp-content/uploads/2018/02/Gronda-Relazione-conclusiva-della-Commissione.pdf

(8) https://www.grondadigenova.it/wp-content/uploads/2018/05/Articolo-il-Secolo-XIX-29-maggio-2018.pdf


Milano, 16.8.18