E 43 morti.
Persone che hanno perso la vita per permettere al gestore di quel pezzo di autostrada di distribuire dividendi ai suoi azionisti risparmiando sulla manutenzione del ponte.
Quando quel tratto era pubblico si spendevano più di un milione di euro l'anno per la sua manutenzione, con la gestione privata poco più di ventiseimila euro.
Ponte Morandi, le accuse: “Ispezioni degli stralli fatte coi binocoli. Autostrade ha speso solo 488.128 euro di manutenzione in 19 anni”
Mettevano in pericolo la sicurezza dei pubblici trasporti, e cagionavano, “non impedendolo, il crollo della pila 9 e del collegato tratto autostradale di circa 240 metri del viadotto Polcevera (…) in conseguenza del quale trovavano la morte 43 persone”. E in 19 anni avevano speso meno di mezzo milione di euro per interventi manutentivi strutturali. È l’accusa, formalizzata negli avvisi di conclusione indagini recapitati nelle scorse ore dalla Guardia di Finanza, che la procura di Genova muove a 69 tra tecnici e dirigenti di Autostrade e della controllata per le manutenzioni Spea, indagati a vario titolo per il crollo del ponte Morandi. I reati contestati, al termine di quasi tre anni d’inchiesta, sono saliti a dieci: disastro colposo, falso materiale, ideologico e in documenti informatici, crollo doloso, attentato alla sicurezza dei trasporti, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, omicidio colposo, lesioni personali colpose e infine – novità delle ultime ore – anche l’omicidio stradale, che potrebbe far schizzare verso l’alto il massimo di pena irrogabile in caso di condanne. Gli indagati – scrivono i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno– omettevano “di adoperarsi affinché sul viadotto fossero eseguite attività di diagnosi del degrado (…) ed installati impianti idonei a prevenire il cedimento dei tiranti, nonché sistemi di monitoraggio idonei a consentire un costante e adeguato controllo del suo comportamento, e in particolare affinché si procedesse sugli stralli della pila 9 a interventi che, se realizzati, avrebbero impedito con certezza il crollo”.
Gli interventi omessi – In particolare, “dopo che era stata casualmente accertata, nel 1991, l’esistenza di gravissimi fenomeni di corrosione e di difetto di iniezione dei cavi degli stralli” delle pile 10 e 11, da allora e fino al giorno del disastro (14 agosto 2018) “in una sola occasione, nell’ottobre 2015, erano state eseguite osservazioni dirette e ravvicinate dello stato di conservazione dei trefoli” sulla pila 9, quella crollata, l’unica non interessata da interventi di manutenzione. E la conseguente relazione, proseguono i pm, “evidenziava chiarissimi segnali d’allarme sulle condizioni degli stralli, accertando che tutti i trefoli risultavano scarsamente tesati e si muovevano con facilità facendo leva con uno scalpello”. Nonostante ciò, la struttura è stata lasciata ammalorare negli anni fino al cedimento: “Tra l’inaugurazione del 1967 e il crollo – e, quindi, per ben 51 anni – non è stato eseguito il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila 9”, scrivono i pm. Il progetto di retrofitting (rafforzamento) presentato nel 2017, infatti, non ha fatto in tempo nemmeno a iniziare. Anzi: proprio in vista di quell’intervento, “il viadotto era stato volontariamente sottratto, grazie all’arbitraria e ingiustificataqualificazione dello stesso come intervento locale (…) non soltanto alla valutazione di sicurezza della sua intera struttura, ma anche alla valutazione limitata agli stralli oggetto dell’intervento, doverosa anche nel caso di intervento locale”.
Le ispezioni inadeguate – C’è spazio anche per una valutazione dell’operato di Spea, la controllata di Autostrade che fino al 2019 si occupava delle ispezioni e delle manutenzioni sulla rete. Società, scrivono i pm, “appartenente al medesimo gruppo imprenditoriale, soggetta alla direzione e al coordinamento di Aspi e, quindi, inevitabilmente condizionata da quel rapporto di dipendenza societaria, economica e contrattuale, tanto da attenuare e ammorbidire sistematicamente i contenuti delle proprie relazioni in modo da renderle gradite alla committente, sottovalutando la rilevanza dei difetti e delle criticità accertate”. I controlli, prosegue l’avviso, erano svolti “con modalità non conformi alla normativa vigente e, comunque, lacunose, inidonee e inadeguate in relazione alle specificità del viadotto Polcevera; in particolare, le ispezioni visive degli stralli venivano sistematicamente eseguite dal basso, mediante binocoli o cannocchiali, anziché essere ravvicinate “a distanza di braccio” e non erano pertanto in grado di fornire alcuna informazione affidabile sulle condizioni dell’opera”. Inoltre, dal 2011, “nessun ispettore era più potuto entrare all’interno dei cassonisottostanti l’impalcato per verificarne le condizioni, non avendo Aspi e Spea provveduto allo svolgimento delle attività di formazione professionale imposte dalla normativa; ciò nonostante, i report trimestrali continuavano a dare atto, contrariamente al vero, che tutte le parti del viadotto venivano regolarmente ispezionate”.
I report “ammorbiditi” – Non solo. “Spea – si legge ancora – svolgeva la sua attività di ispezione sulla base di un Manuale di sorveglianza e di un Catalogo di difetti approvati da Aspi, del tutto inidonei a fornire una rappresentazione completa e veritiera dei difetti esistenti, e costituenti le espressioni operative della filosofia manutentiva praticata da Aspi, che prevedeva che il degrado non fosse prevenuto o affrontato e risolto sul nascere, ma fosse lasciato avanzare e progredire, nella presunzione, del tutto infondata sotto il profilo tecnico-scientifico, di essere sempre in grado di controllarne l’evoluzione nel tempo, in modo da poter intervenire il più tardi possibile”. Per di più, secondo la Procura, “anche rispetto ai discutibili criteri di attribuzione dei voti indicati nel Manuale”, la controllata “sottostimava sistematicamente i difetti che rilevava”, attribuendo alle strutture ispezionate “voti inferiori a quelli previsti, in modo da non costringere Aspi a procedere a interventi manutentivi in tempi brevi, mantenendo inalterata, attraverso disinvolte operazioni di copia-incolla e contro ogni legge fisica, la descrizione e la valutazione di gravità dei difetti anche per molti anni”. Peraltro, si legge, le due società “non disponevano della documentazione tecnica necessaria per una corretta e adeguata conoscenza del manufatto”, perché non si erano mai preoccupate di ottenere il progetto originale di Morandi, “acquisito presso l’Archivio di Stato soltanto in data 12.4.2017”.
Il “rischio crollo” – “Il fatto che il viadotto Polcevera, almeno sino al completamento dell’intervento di retrofitting, presentasse criticità e problemi – prosegue l’avviso – aveva indotto la stessa concessionaria ad inserire per la prima volta, nel Catalogo dei rischi operativi relativo all’anno 2013, un rischio specifico, autonomo ed unico relativo al viadotto, definendolo “rischio di crollo del viadotto Polcevera per ritardati interventi di manutenzione” (definizione poi modificata in “rischio di perdita di stabilità”, ndr)”, e “a elevare il massimale assicurativo relativo al viadotto Polcevera, a decorrere dal 2016, da 100 a 300 milioni di euro”. Addirittura, gli “imponenti e costosi interventi di manutenzione” necessari per garantirne la sicurezza avevano spinto Aspi “a prendere in considerazione, nel 2003, anche l’ipotesi della demolizione del manufatto”.
I mancati investimenti – Invece nulla venne fatto, né in un senso né nell’altro: e ciò a causa dei quasi nulli investimenti messi in campo da Aspi dopo la privatizzazione del 1999. “Nei 36 anni e 8 mesi intercorsi tra il 1982 e il crollo – argomenta la Procura – gli interventi eseguiti sull’intero viadotto avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro; di questi, 24.090.476 euro (cioè il 98,01%) erano stati spesi dal concessionario pubblico e solo 488.128 euro (cioè l’1,99%) dal concessionario privato; la spesa media annua del concessionario pubblico era stata di 1.338.359 euro (3.665 € al giorno), quella del concessionario privato di 26.149 euro (71 € al giorno), con un decremento pari al 98,05%. Situazione non giustificabile – è la conclusione lapidaria – con l’insufficienza delle risorse”, dal momento che Aspi “aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo, e che, tra il 2006 e il 2017, l’ammontare degli utili conseguiti da Aspi ha variato tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni di euro circa, utili distribuiti agli azionisti in una percentuale media attorno all’80%”.